«La Nave Dolce, una storia di libertà e accoglienza, ancora attuale». Intervista a Daniela Nicosia

Sotto la Grande Quercia
Il blog di Raffaella Ilari


Spettacolo in concorso
Tib Teatro (Belluno)
LA NAVE DOLCE

 

Le immagini di quella notte dell’8 agosto 1991, quando dalla nave Vlora sbarcarono al porto di Bari 20.000 albanesi, sono scalfite nella nostra memoria. Così, come quella generosa e sincera solidarietà che il popolo barese ha da subito messo in pratica al contrario, invece, della reazione delle autorità governative. Di questo e di molto altro ancora racconta “La Nave Dolce” della compagnia bellunese Tib Teatro, primo spettacolo in concorso alla 20^ edizione del Festival Teatrale di Resistenza giunto a festeggiare i suoi vent’anni. Ne parliamo con la regista Daniela Nicosia, anche autrice del testo, portato in scena dall’attore barese Massimiliano Di Corato.

Cosa accadde, Daniela, quella notte dell’8 agosto 1991?
L’8 agosto 1991 nel porto di Bari attracca la nave Vlora carica di ventimila albanesi, uomini e donne, spesso giovanissimi, in fuga dopo quarant’anni di dittatura. 20.000 persone che arrivano, in un sol colpo, sono un paese intero. E un paese intero non lo si può rispedire a casa come fosse un pacco mal recapitato. Da un lato le autorità governative che vogliono quei ventimila, rinchiusi, tutti insieme, nello stadio cittadino trasformato da luogo di incontro in anfiteatro di una assurda lotta per la sopravvivenza, mentre gli elicotteri controllano dall’alto. Dall’altro la comunità di Bari, che accoglie anche a suon di paste al forno e focacce raccolte tra le famiglie! Una vicenda esemplare che apre lo sguardo sul panorama politico europeo degli anni ‘90, sulle ferite ancora aperte. Questa storia ritrova oggi piena attualità.
La Nave Dolce racconta del più grande sbarco di migranti mai giunto in Italia con un un’unica nave. È una storia che invita a riflettere sul senso di comunità e sul concetto di accoglienza.

Come viene raccontata questa vicenda nello spettacolo?
Attraverso una triangolazione dello sguardo. Tre voci – quella di chi si mette in viaggio, quella di chi accoglie, quella di chi guarda – e una storia. Tre lingue: un idioma italo-albanese – il viaggio, le attese, l’approdo – un idioma italo-pugliese – la coscienza critica – l’italiano – lo stupore. Tre punti di vista: un giovane albanese, un barese, un bambino a testimoniare un evento che ha mutato per sempre la storia dell’immigrazione. Il lavoro evidenzia, tra gli altri aspetti, uno strappo istituzionale tra il governo di allora – Andreotti – e in particolare tra il Presidente della Repubblica Cossiga e l’Amministrazione Comunale di Bari: si attuò infatti – contrariamente a quanto volesse il Sindaco della città Enrico Dalfino e alle manifestazioni di solidarietà da parte della comunità – un’operazione di polizia invece che di protezione civile, richiudendo 20.000 persone in uno stadio senza servizi igienici né viveri a sufficienza, invocando e attuando, anche con l’inganno, il rimpatrio immediato.

Su quali fonti e documenti avete lavorato per arrivare a questa nuova drammaturgia?
Il testo è scaturito da una lunga ricerca su documenti, giornali e filmati di quell’8 agosto 1991 e dalle testimonianze raccolte nel corso di due anni tra la comunità albanese di Bari e di Belluno, e tra alcuni rappresentanti delle istituzioni e testimoni dell’epoca ma anche la visione del docufilm di Daniele Vicari e i sopralluoghi a Bari, una sera di dicembre. Massimiliano ed io iniziamo così il nostro viaggio, il Molo Carboni, poi, lo stadio della Vittoria. 12 km di camminata a piedi, lo stesso percorso che allora nel 1991 fecero i pullman carichi di coloro che erano sbarcati dalla Vlora. Sono le 19 circa, è buio, entriamo. Lo stadio è vuoto, un cane attraversa gli spalti, le luci a scarica rischiarano il campo, il cielo è plumbeo, il vento è pungente, siamo all’aperto, eppure qualcosa di claustrofobico preme sul nostro petto, come se quei ventimila che lì furono rinchiusi, fossero ancora in quello stadio allora trasformato in lager.
Siamo soli, il silenzio accompagna i nostri pensieri. Ci fermiamo per un po’, poi imbocchiamo la via del ritorno… Il giorno dopo ho un aereo, prendo un taxi, fa lo stesso percorso, chiedo quanti chilometri siano, mi viene naturale raccontare perché sono lì: quel taxista sarà il nostro primo testimone, anche lui è arrivato a Bari con la Vlora. Ritornerò a Bari in maggio, nel frattempo Massimiliano ha preso contatti con chi a Bari ha vissuto quei giorni, chi è arrivato e chi ha accolto. Nel frattempo a Roma incontro Daniele Vicari, entusiasta del progetto, è gentile e felice che questa storia possa nuovamente essere raccontata da un mezzo così diverso dal cinema, eppure essere raccontata ancora. A Belluno scopro che c’è una Comunità Albanese di circa 1000 persone, arrivate in quegli anni con quella ed altre navi. Sarà Massimiliano questa volta a mettersi in viaggio, ci mettiamo in ascolto delle loro storie, dei loro ricordi con pudore e rispetto, spiazzati, a volte, dall’improvviso erompere delle emozioni che interrompono il dire di quelle persone che generosamente si raccontano. A volte abbiamo la sensazione di trovarci di fronte ad un resoconto ben preparato, poi nella relazione, negli sguardi che si stabiliscono tra noi e quei testimoni, qualcosa incrina la loro fermezza, qualcosa di improvviso fluisce al di là dei fatti narrati. In quegli spazi vuoti si innestano gli spunti per le prime improvvisazioni: si creano immagini, si osservano i gesti, le sospensioni. Sullo sbarco della Vlora tanto è stato scritto, Massimiliano ed io cominciamo a cercare, nelle teche Rai a Bari, nelle biblioteche, nelle mediateche, nei giornali dell’epoca, nei filmati in rete. Un percorso di studio condiviso fatto di stimoli reciproci che ridisegna i ruoli – regista, autore, dramaturg, attore – mossi entrambi da una reale urgenza artistica. La ricerca si amplia: vogliamo raccontare della Vlora, e per farlo è necessario conoscere la storia dell’Albania e dell’immigrazione nel nostro Paese. Quando non siamo insieme, un flusso giornaliero di email, di informazioni, di documenti raccolti, di telefonate accompagna il processo di lavoro mentre ci chiediamo come raccontare questa storia, queste storie, con semplicità e senza retorica. Mi colpisce il linguaggio aulico che a volte usano gli albanesi, parole desuete che seppur in una grammatica italiana non perfetta spuntano nelle loro testimonianze, parole alte, parole che sembrano inadeguate eppure sono loro… Molti sono professionisti altri sono operai, impiegati ben integrati nella vita produttiva italiana, insomma gente comune.

Una storia ancora contemporanea…
Più il nostro viaggio va avanti più mi si palesa la contemporaneità di questa storia, quanto essa sia una storia necessaria oggi, e quanto la Storia tristemente si ripeta. Che a narrarla sia un giovane attore barese, all’epoca non ancora nato, che abbia sentito forte il bisogno di testimoniarla, è qualcosa che invece induce a sperare. Voglio crederci.
Cerco una vicinanza tra Massimiliano e questa vicenda che ha più anni di lui, gli propongo un esercizio: le frasi affettive, quelle della memoria, quelle della sua terra. Da queste ha origine una delle voci dello spettacolo; mi arriva da Max una testimonianza di chi, allora bambino, incrociò per caso la Vlora, la nave storta, da qui ha origine la terza voce, la prima è la loro: quella di chi si mette in viaggio. Viaggiavamo, viaggiavamo soltanto ma dove e per quanto…
Questo andare avvicina chi allora andava e chi oggi si mette in mare, nella estrema diversità tra quelle navi prese d’assalto quasi per gioco, quasi per scommessa, e i barconi attuali.
Eppure non mi basta. Cerco un link tra quella prima immigrazione e quella presente, e un giorno lo trovo: sta nelle parole. Nelle parole della politica, nelle parole del potere. Dolorosamente identiche, nel tempo. Ora il testo si dispiega con naturalezza, quelle parole le affido a Massimiliano perché le faccia depositare in sé e provi a donarle con la stessa naturalezza, nella ricerca di una verità del dire che da sempre appartiene alla mia ricerca artistica e si traduce nella cura del lavoro sull’attore, affinché non reciti ma sia, in quel qui e ora, che il teatro richiede, in quella adesione e sincerità che la vita richiede.

Cosa ci insegna oggi questa storia e quali sono ancora le ferite aperte?
In ragione del momento storico che stiamo attraversando, in cui l’integrazione e l’accoglienza sono messe quotidianamente in discussione, attraverso la diffusione di ideologie distorte e di forti strumentalizzazioni politiche, è emersa la nostra necessità artistica di raccontare la storia di questo sbarco, che pur avendo caratteristiche assai diversi da quelli di oggi, ripropone atteggiamenti e posizioni politiche purtroppo di estrema attualità. La “colpa è sempre degli altri” e ci si dimentica che l’altro, gli altri siamo noi.

Il Festival di Resistenza quest’anno compie vent’anni. Come può il teatro, in riferimento al periodo che stiamo vivendo, contribuire a disegnare un nuovo mondo?
Il teatro è prioritariamente, a mio avviso, luogo di emozioni e di relazione, luogo in cui si fa esperienza di comunità nella condivisione di emozioni – spettatori e attori – il pensiero arriva dopo, ma arriva, sempre. È quindi prioritariamente esperienza, incontro, visione e poi pensiero. Prima il teatro tocca la pelle, il corpo e poi la testa, la ragione; in questo processo delicato, complesso e completo sta la sua capacità di incidere sul presente e ci auguriamo di ridisegnarlo. Questo accade sia che si lavori sulla tragedia classica, sia su testi contemporanei è chiaro che questo discorso non riguarda il teatro di mero intrattenimento che forse non so nemmeno se sia teatro, di certo non è teatro necessario. Di certo non è il teatro che pratico e che mi interessa. Non si tratta di essere seriosi, si tratta di agire sulla forma e scegliere contenuti e fonti che, pur distanti nel tempo, possano e sappiano parlare al presente, per contribuire a rielaborarlo. Rispetto a questo periodo pandemico, all’isolamento sofferto, il teatro può, per le ragioni sopraesposte, essere luogo di “cura”, luogo in cui è possibile vivere nuovi incontri sotto il cielo che l’arte e la bellezza sanno donare.

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