Intervista a Stefania Evandro, Teatro di Lanciavicchio > Sotto la grande quercia

Blog a cura di Raffaella Ilari
con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico
del 18° Festival di Resistenza
 

Gli attori-cafoni di Fontamara
e il coraggio di raccontare la verità

Intervista a Stefania Evandro, Teatro di Lanciavicchio
Di Raffaella Ilari

 

Prima opera di Ignazio Silone, “Fontamara” nell’allestimento del Teatro Lanciavicchio, realizzato in coproduzione con il Teatro Stabile d’Abruzzo diretto da Simone Cristicchi, diventa una sinfonia di testimonianza in cui cinque attori danno voce alla storia dei Fontamaresi, alle condizioni di estrema povertà dei “cafoni” della valle abruzzese del Fucino, un popolo escluso dai processi di ammodernamento, mentre l’ombra incombente del fascismo si sposava con gli interessi dei poteri forti. Ne parliamo con Stefania Evandro, direttrice artistica di Lanciavicchio e una degli interpreti di “Fontamara”, primo spettacolo in concorso al 18° Festival Teatrale di Resistenza.

Cosa vi ha portato a scegliere di mettere in scena questo testo?

Il Teatro Lanciavicchio, che nasce nel 1979, aveva già lavorato su “Fontamara” nei primi anni ’90. Questo lavoro su Silone ha condizionato molto il processo di analisi che la nostra compagnia ha fatto e che tuttora fa in teatro utilizzando il teatro come un momento di scavo e analisi del territorio sia in riferimento alla memoria, sia in relazione ai fatti e agli eventi storici che hanno condizionato in maniera profonda la nostra terra. Ci siamo trovati nella condizione di riscoprire “Fontamara” e ci siamo trovati a dire che ha molto senso ragionare su questo testo perché le problematiche sono tuttora simili. Oggi la Marsica è un enorme orto in cui si coltiva in maniera intensiva e chi lavora le terre del Fucino sono per il 99% ragazzi nordafricani. I cafoni di una volta sono stati sostituiti da manodopera nordafricana ma le condizioni di vita sono le stesse così come identica è la mancanza di strumenti dei lavoratori della terra per capire la propria condizione e cercare di trasformarla per reagire alle angherie e prepotenze in quel momento ad opera del fascismo e che oggi fanno parte di una condizione globale legata all’economia e ai flussi migratori.

Che tipo di riscrittura è stata realizzata?

Abbiamo sentito la necessità di avvalerci della collaborazione di Francesco Niccolini, eccellente traghettatore di una riscrittura di “Fontamara”, che ci ha consentito di rileggere l’opera con la dovuta distanza. Nel testo originario ci sono tre personaggi che raccontano, in scena ne troviamo quattro. E poi dalla platea, dal mondo di oggi, arriva il figlio. Francesco Niccolini è stato bravissimo, a nostro parere, nel trasformare una narrazione divisa in vari capitoli nella narrazione di un popolo. Questo ci è piaciuto molto. Antonio Silvagni ha saputo poi restituire la molteplicità in una soluzione scenografica.

Perché vi definite attori-cafoni?

Fa riferimento a una denominazione di origine del territorio, i cafoni marsicani siloniani, quelli che non riescono a comprendere la situazione che vivono e ad adottare strumenti per cambiare la loro condizione. Ci piace questa identificazione dell’attore-cafone perchè è quell’attore che scava nel suo lavoro per cercare ciò che è al di sotto della storia, della memoria e di problematiche urgenti. Scava per portare alla luce qualcosa come se fosse un lavoro artigianale e di archeologia. Portare alla luce qualcosa di sepolto che si vuole tenere nascosto o che è stato dimenticato.

Che tipo di lingua parlano?

Su questo punto abbiamo riflettuto a lungo a livello registico e drammaturgico. Questo si lega molto con il processo che racconta Silone nella prefazione in cui ci dice che è stato difficile capire quale linguaggio usare. Lui dice al lettore della necessità di far ascoltare la storia a tutti perché voleva raccontare quanto un sistema economico e politico abbia stritolato un territorio e i suoi lavoratori nella Marsica di allora come in tanti altri luoghi. La lingua è stata quindi centrale. All’inizio abbiamo sentito la necessità di sporcare l’italiano, che andava bene per la lettura, con il dialetto, poi abbiamo trovato un equilibrio. Antonio Silvagni ha cercato un equilibrio tra italiano e dialetto restituendo ai narratori la necessità di parlare a tutti, di non parlare quindi un dialetto molto stretto ma mantenere all’interno dell’italiano delle ‘sporcature’, delle espressioni autenticamente dialettali che restituiscono il suono della nostra terra.

Quale è la contemporaneità del testo di Silone?

Nelle sue intenzioni c’era l’esigenza di raccontare anche la radiografia di un controllo politico ed economico su un territorio. Lui diceva che i strani fatti su “Fontamara” sono accaduti in più luoghi e in diverse epoche ma non è un motivo buono per tacerli. Raccontare oggi la verità è importante perché viviamo momento storico complicato in cui bisogna essere attenti, stare all’allerta perché assistiamo a esternazioni socio-politico a cui non avremmo mai pensato di assistere. È emozionante per questo raccontare “Fontamara” a Casa Cervi perchè oggi bisogna essere pronti a raccontare qualsiasi ingiustizia e avere il coraggio di prendere posizione senza ambiguità. La scelta di essere attori cafoni è anche quella di guardare il mondo dall’ultimo gradino della scala.

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