Sotto la grande quercia > Blog a cura di Raffaella Ilari

“Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia
che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta.
Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni.
Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco.
Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme.
Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”.
(Alcide Cervi, “I miei sette figli”)

In queste intense e potenti parole di Alcide Cervi sta racchiuso il significato del tramandare. Ideali e memoria. Credo che il Museo Cervi rappresenti un osservatorio privilegiato, forse l’unico, nel quale fermarsi ad osservare la Storia e ad interpretare i segni complessi del presente. Lo si può fare qui, perché qui sono custodite la nostra identità democratica e le nostre radici antifasciste. In cui un popolo ancora si riconosce. Per questo ci si sente come a Casa.
Quella quercia dai sette rami è una quercia identitaria, da quel seme si rigenera e si tramanda memoria, si crea la forza per praticare le nuove forme di Resistenza.
Il Museo Cervi non è un luogo di memoria ‘museificata’, come taluni potrebbero immaginare, ma un luogo di memoria viva e resa viva da una costante riflessione ed elaborazione culturale. In costante contatto con il mondo, le sue trasformazioni, le sue turbolenze, i suoi tumulti.
Il teatro in questo fa la sua parte. Da sedici anni nella campagna reggiana il teatro sa aggregare attorno al Museo una comunità, una funzione antica che ai tempi della Resistenza era assolta dal teatro di stalla allestito dai contadini, in modo spontaneo ed improvvisato, per intrattenere familiari e amici.
Il teatro apre le porte del Museo, ci prende per mano e ci fa scoprire i suoi spazi, l’eredità umana, storica e culturale in esso sapientemente custodita.
Ce lo insegnava George Banu, il teatro altro non è che un atto di memoria, un luogo dove il passato diviene presente. Nel suo farsi testimone, diventa uno dei mezzi di comunicazione più efficaci e diretti per arrivare ai cuori e alle coscienze delle persone. Prima di essere pubblico anonimo, siamo spettatori e, ancora prima, siamo cittadini.
Il teatro, luogo di incontro e dialogo, dove l’impossibile può diventare possibile, può assumere un ruolo centrale nella creazione o ricostruzione di una nuova comunità, nel fare esercizio di cittadinanza.
Ecco così che arriviamo ad aprire la sedicesima edizione del Festival di Resistenza, con l’intento di coniugare il teatro e il fare memoria attraverso la presentazione del lavoro di compagnie e artisti, provenienti da varie parti d’Italia.
7 gli spettacoli, 7 le compagnie ospiti come 7 i fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943. Dal 7 luglio, giorno del 57° anniversario dei Caduti di Reggio Emilia, al 25 luglio, giorno della caduta del Fascismo e della Storica Pastasciutta Antifascista, il teatro svolgerà la sua funzione primordiale di porre domande, di denunciare e documentare, di prendere posizioni a volte anche scomode. Un Teatro Partigiano.
Darà voce alla vicenda dei 43 studenti messicani scomparsi il 26 settembre 2014, a riflessioni sull’attualità della nostra Costituzione e alla fragilità delle relazioni familiari, alla perdita d’identità dovuta alla perdita di lavoro, ma anche all’autobiografia e a pagine di Storia.
Ma sarà anche spazio di parole e pensieri su temi di scottante attualità quali l’esodo migratorio, la legalità, la soggettività femminile, la cittadinanza responsabile.
È una memoria del presente, una sfida culturale complessa questa di essere presenti al proprio tempo, per usare un’espressione cara ad Hannah Arendt.
“La memoria è una forma di coraggio”, scriveva Jean Vilar. Ecco allora che il teatro si mostra coraggioso nell’inseguire la verità, nello scavare e ricostruire fatti. Il teatro si fa gesto civile, luogo in cui rafforzare la partecipazione, occasione preziosa per riflettere sulla democrazia, da vigilare e coltivare quotidianamente.
Sotto la grande quercia ci siamo tutti noi, popolo smarrito di un tempo complicato, minacciato da populismi, dal riemergere di neofascismi, in cui sentiamo troppo parlare di muri e fili spinati. Ecco allora che diventa sempre più importante tenersi aggrappati ad alcuni punti fermi. In questi giorni assistendo alle immagini di un’umanità in fuga verso l’Europa, in cerca di salvezza, ho pensato a cosa avrebbe fatto papà Cervi. Sono convinta che Alcide Cervi avrebbe aperto la sua casa, avrebbe dato ospitalità, come la solidarietà antica insegnava.
D’altronde quel mappamondo che trionfava sul suo trattore non era forse un simbolo di apertura, di superamento dei confini, di allargamento agli orizzonti delle coscienze? “Questo è un popolo: qui sono terre ed uomini che le lavorano. Questa riga è un confine, al di là del confine ci sono altre terre e altri uomini che le lavorano; e al di là di altri confini ancora altre terre e altri lavoratori; e così sempre uguale, finché, facendo il giro del mondo, si torna al punto di partenza… Perché, allora, i confini, perché le guerre? Perché tutti gli uomini che lavorano non potrebbero mettersi d’accordo, e lavorare in pace se uguale è il loro destino?”
Sotto la grande quercia, nelle calde sere di luglio, tra il frinire delle cicale e il profumo del frumento, ci ritroveremo anche quest’anno in un rinnovato incontro che in questa rubrica seguiremo dando voce ai suoi protagonisti.

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