Intervista a Elisa Denti > Sotto la grande quercia

Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 16° Festival di Resistenza.

Quando il mostro da combattere siamo noi stessi.

Intervista a Elisa Denti
di Raffaella Ilari

Elisa Denti inizia il suo percorso teatrale a 16 anni a Padova, con il Teatro Popolare di Ricerca, prendendo parte a diverse produzioni e tournée della compagnia. Nel 1999 arriva a Bologna dove studia al DAMS con indirizzo teatro e nel 2004 si diploma alla Scuola di Noveau Cirque di Alessandra Galante Garrone. Nel 2007 si diploma come attrice alla Civica Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e inizia a collaborare con diverse realtà teatrali italiane. Da alcuni anni porta avanti una sua ricerca personale connotata da una forte attenzione al teatro sociale, scrive e porta in scena i propri spettacoli. Contemporaneamente al lavoro di attrice conduce quello di formatrice curando laboratori teatrali per bambini e adulti, attenta alla metodologia del Teatro Sociale e di Comunità. “I won’t eat” ha ricevuto nel 2014 il premio UP2U (indetto da La Stampa e Teatro Stabile di Torino) presentato in una forma breve di 15 minuti, il Premio “Teatro…voce della società giovanile” indetto da Endas Emilia Romagna e Crexida Fienile Fluo, il Premio “GaiaItalia” come “Miglior Testo” e “Miglior Spettacolo” al Nogu Festival di Roma.

Elisa cosa racconti in I won’t eat?
Racconto una storia di anoressia dal punto di vista di una ragazza che entra in questo incubo e anche della madre della ragazza perché l’anoressia è una malattia che purtroppo non colpisce singolarmente chi manifesta i sintomi ma tutti gli affetti che ci sono intorno. È una malattia che porta all’autoesclusione sociale e quindi ogni relazione ne viene intaccata. Per la medicina generale nel suo sviluppo la madre è una figura emblematica. Ho pensato di portare i punti di vista di queste due figure chiave nella malattia: la madre e la figlia.

Che tipo di scrittura hai utilizzato per affrontare un tema così delicato e personale?
Il linguaggio usato è piuttosto diverso nelle due parti. Per quanto riguarda la figura della figlia ho scelto di raccontare l’anoressia usando l’ironia, per quanto sia possibile usarla con un argomento simile. Io ho vissuto la malattia, parto quindi da alcuni elementi autobiografici per poi raccontare la malattia in generale e far sì che la storia sia di tutti perché è una patologia che ha suoi rituali ben definiti soprattutto il fatto di sentirsi unici, mentre in realtà questa unicità è un’illusione perché è una malattia che ha scadenze e appuntamenti in cui ricadono tutti. Ho cercato di smascherare alcune dinamiche che avvengono e credo che usare l’ironia, smascherare, ‘spiattellare’ a tutti quello che succede, possa essere l’unico modo di parlare di una malattia che porta a prendersi molto sul serio. Ecco, provare a prenderla in giro credo sia il modo giusto per parlarne. Almeno per me è stato così. È un lavoro che ha avuto una gestazione lunga, ho collaborato con molte persone e si è arricchito di molteplici spunti diversi. Mentre la prima parte è totalmente scritta da me, la seconda invece, quella della madre, si è arricchita del contributo di un’attrice, Sara Urban, con cui ho collaborato. Ne è venuta fuori quasi una ‘preghiera atea’ di una madre che si chiede in cosa può aver sbagliato e se davvero è colpa sua, tanto da sentirsi, da non credente, costretta a chiedere un aiuto divino, perché non sa più a cosa appigliarsi. Ho voluto parlare di anoressia perchè è un tema che mi sta a cuore e penso che la condivisione, tramite il teatro, sia un modo catartico che possa aiutare a non sentirsi soli e a riflettere su ciò che succede attorno a noi.

È anche una riflessione sulle figure femminili?
La figura della madre, nella medicina, è la causa scatenante dell’anoressia o un suo problema principale, in realtà è tutta la famiglia ad essere messa in discussione. Si parla sempre poco della figura del padre, anche questa può creare grossi disagi e scatenare la malattia che ovviamente è già presente nella persona e che poi svilupperà. Una cosa a cui tengo molto, e vorrei arrivasse al pubblico, è soprattutto legata alla parte della madre, una figura quella femminile sempre colpevolizzata storicamente. Ecco credo che è vero che ci sia qualcosa che non va nel rapporto madre-figlia o padre-figlia nelle dinamiche di questa malattia, però fondamentale, ai fini di una guarigione, è che il senso di colpa, sviluppato attorno alla figura della madre, è assolutamente deleterio nel benessere della famiglia. C’è qualcosa di sbagliato nella dinamica di rapporto. Va cambiato senza però sentirsi in assoluto sbagliati o in assoluto giusti. Sono sbagliate le dinamiche nei confronti della figlia. Vorrei passasse la messa in discussione ma senza il senso di colpa. È difficilissimo non sentirsi in colpa ma è fondamentale farlo. Winnicott, lo psichiatra, dice che per quanto si tenti di non far sentire in colpa la madre, appena la si tira in causa nella terapia, subito parte il senso del colpa. Questo è deleterio e molto legato alla donna e alla figura femminile.

La scrittura può essere una forma di guarigione. È stato liberatorio per te scrivere questo testo?
Credo di essere riuscita a scrivere questo testo perché ormai da molto tempo avevo preso le distanze da questo problema. Ho avuto difficoltà nell’accettazione del mio corpo e del mio peso in età molto giovane. Non sono mai arrivata a pesare pochissimo e ad avere problemi gravi. Sono riuscita ad uscirne prima proprio perché ero molto giovane e attorno a me si sono subito attivati. Ho avuto molta paura di quello che stavo facendo e la paura mi ha salvata. Purtroppo ho avuto molte amiche che invece ne hanno sofferto in maniera molto grave. Ho toccato quindi la malattia da entrambi i punti di vista. Nel tempo ho iniziato a scrivere dei frammenti di testo. Tutto è nato dalla lettura del libro di Alessandra Arachi “Briciole” che mi colpì parecchio. Lessi quel libro usandolo come suggerimento prendendo da esso alcuni metodi usati per dimagrire di più. Nel tempo, crescendo e prendendo le distanze dalla malattia, sono riuscita a scrivere. Sì, è stato liberatorio. Liberatorio è stato soprattutto decidere di scrivere con ironia. Non volevo capitasse quello che è capitato a me nel leggere quel romanzo, ossia di imitare. A costo di risultare anche sgradevole in certi momenti spero che il mio testo possa accendere una lampadina a chi è ancora in questo incubo e fargli vedere da fuori che il mondo creato è in realtà fittizio e che è visibile a tutti il mondo di bugie in cui si vive. È stato catartico ma sono riuscita a scriverlo perché avevo già allontanato la vicenda da me.

Come mai hai presentato il tuo lavoro ad un Festival di Resistenza?
Il grande pedagogo contemporaneo sudamericano Augusto Boal ha sviluppato un metodo, che si usa molto nel teatro sociale di comunità, che applicava per dare voce a chi non ne ha nella società, nel mezzo di reali problemi sociali, lotte, insurrezioni. Quando è venuto in Europa si è chiesto: ma dove sono qui le difficoltà, avete tutto, non ci sono guerre, non ci sono gravi coercizioni sociali. Perché state così male? La risposta è stata che il problema è dentro di noi. Nella società contemporanea occidentale, in cui non ci sono grandi nemici sociali da combattere, come poteva essere il fascismo, la grande oppressione è la nostra mente, lo sviluppare troppo il pensiero e che questo ci ingurgiti. Sono i problemi psichici mentali, le malattie mentali che scaturiscono da questo. Siamo noi il grande nemico da combattere. Quella che racconto è quindi una resistenza personale, sono tante resistenze personali che si nascondono dentro di noi, dentro la famiglia. Questa malattia è un tabù di cui poco si parla ma sempre più presente. È vero che c’è una componente sociale, una richiesta di un corpo difficile da soddisfare, ma in realtà il problema è interiore e il mostro da combattere siamo noi stessi. La Resistenza, come ha capito Boal, è da attuare dentro di noi, trovare una forma per convivere con noi stessi.

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