Lunedì 16 giugno 2025
«Siamo stati a Montesole domenica 15 giugno, alla marcia promossa sotto il titolo “Save Gaza”. Siamo stati, ovvero tantissime persone differenti, per età e provenienze, esperienze e aspirazioni. Siamo stati, ovvero Casa Cervi, che c’era perché ha aderito; e Casa Cervi è un sostantivo collettivo.
Siamo stati e sono stato a Montesole. Comincio da qui, perché da qualche parte bisogna pur cominciare. Cominciare a sentirlo insopportabile, cominciare a pensare, cominciare a fare. Mai nessun tema nella recente storia dell’umanità si è vestito di “complessità non risolvibile”, come la questione israelo-palestinese: troppo difficile, troppo datata, troppo atavica, troppo lontana o al contrario troppo vicina alla coscienza dell’occidente e dell’Europa, per essere razionalizzata. Chi ha la memoria e la storia lunga può avere maturato una certa stanchezza per un garbuglio inestricabile. Chi è fresco di generazione o distratto di coscienza, può avere l’impressione che sia sempre esistita (non è vero), e che sia al di là della nostra personale portata. O peggio, della nostra singola responsabilità. E’ una tentazione rischiosa, se la facciamo vegetare nei più giovani che si affacciano alla storia presente (a qualunque storia): accreditare l’irrilevanza, che autorizza l’indifferenza. E, appunto, a non cominciare mai niente, persino un discorso.
E il discorso è questo: oggi non siamo di fronte ad una altra pagina, forse la più terribile, della lotta per l’esistenza di due popoli. Né siamo di fronte ad una richiesta di pace purchessia. A dire il vero, non siamo di fronte nemmeno ad una guerra propriamente detta.
Siamo di fronte ad una fossa comune dell’umanità.
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Può aiutare tutti noi a fare piazza pulita per qualche istante di tutta la complessità che ci lascia attoniti e inutili e inerti, lo scegliere il punto da cui partire, il più urgente, il più essenziale, il più eclatante, cioè la vita stessa e la sua profanazione. Ripartire tutti dal dato incontestabile: ci sono certe azioni che sono la negazione dell’essere umano. Azioni, non intenzioni. Fatti, non ideologie. Conseguenze, non congetture.
Oggi il governo di un paese che si chiama Israele sta scrivendo con le proprie scelte (rivendicate) una delle pagine di disumanità più orribili dai tempi dello sterminio nazista. E’ dolorosamente necessario tornare a quel tempo dannato, il punto zero della civiltà, perché la storia è anche comparazione; per misurare distanze, segnare differenze, riconoscere matrici. Insomma capire. Una delle tante aberrazioni del (mancato) dibattito in corso è proprio l’indignazione di fronte ai paralleli, che servono a distinguere, non ad equiparare. E quando funzionano bene, servono ad avvertirci. E’ necessario scomodare orrori così immani del passato perché si sta costruendo un unicum mostruoso della storia, oggi, nella terra di Palestina.
Un tornante dell’umanità
Questo governo criminale non è tutto Israele. Ma in nome e per conto di esso e del suo popolo (sia dello Stato sia dei suoi cittadini) ha portato la sua operazione militare oltre ogni confine lecito e sopportabile dalla coscienza umana. Nemmeno questo governo la chiama guerra, e ha ragione: questa non è una guerra contro Hamas, una organizzazione terrorista oscurantista e tirannica che ha governato i palestinesi di Gaza fino ad oggi ed ha seriamente minacciato la vita degli israeliani per decenni, fino all’abominevole attacco del 7 ottobre 2023. Questa è diventata una operazione contro il popolo palestinese e la sua terra. Che deve cessare di essere la terra dei palestinesi e deve diventare un’altra cosa, secondo i piani più volte dichiarati. E questo succede a furia di bombe, macerie, assassinii, fame, sete, malattie.
E’ una realtà che tutto il mondo deve accettare per quella che è, basta ascoltare il capo del governo Nethanyau e i suoi ministri più zelanti. E poi osservare l’effetto delle loro azioni. Genocidio è una parola che il mondo deve assumere in tutta la sua portata. La dobbiamo tutti seriamente accettare e prima di tutto ragionare con la vasta comunità ebraica nel mondo per cultura, storia, ascendenza, religione. Tutti gli ebrei di coscienza e volontà, di cui immaginiamo (o forse auspichiamo) il travaglio, ne devono essere consapevoli insieme al mondo intero. Questo dibattito, questa emergenza, questo tornante dell’umanità ha un disperato bisogno degli ebrei. Ecco perché l’antisemitismo non c’entra niente. Proprio come la memoria dei pogrom o dell’olocausto non ha a che fare con presunti sentimenti antirussi o antitedeschi, ma si occupa delle vittime, ovvero gli ebrei.
Anche oggi ci sono le vittime che attendono la nostra piena attenzione. Riportiamo al centro della nostra azione morale, civile, politica le vittime. Oggi le vittime di questa strategia deliberata sono l Palestinesi di Gaza, e anche i Palestinesi di Cisgordiania, che da decenni subiscono la violenza delle colonie illegali e della occupazione di fatto dell’esercito israeliano. Lo sanno tutti, e se non lo sapete, ora si.
Vittima contro vittima
Le vittime. Occupiamoci delle vittime. Solo così potremo tornare a parlare insieme dei trucidati del 7 ottobre 2023, e dei rapiti che non sono più tornati e forse mai torneranno. Storie, vite, tragedie che sono quasi scomparse dal dibattito collettivo e dal bagaglio morale dell’opinione pubblica. Intere esistenze di giovani, famiglie, attivisti, pacifisti, vecchi, donne, bambini spazzate via dall’odio cieco e dal calcolo spietato di Hamas, e poi sommersi due volte da una soverchiante tragedia. Una tenaglia di stragi che ha il solo risultato disumano di contrapporre vittima a vittima.
La catastrofe umanitaria della striscia di Gaza non è un effetto collaterale della guerra che non è una guerra. E’ l’obiettivo. Ci sarà un tempo breve in cui potremo tornare a ragionare delle ragioni politiche e ideologiche di tutto questo, delle responsabilità molto precise, manifeste. Adesso, non un minuto oltre, dobbiamo farci bastare le parole della Croce Rossa Internazionale, dell’ONU, di tutti gli organismi internazionali o di tutta la rete globale delle ONG per descrivere “l’inferno in terra” di Gaza. Adesso, da quella emorragia a cielo aperto che è la Striscia spillano vite, ogni secondo. Dobbiamo fermare quel sangue.
Una strage di diritti
C’è un’altra emergenza, non meno preoccupante, che riguarda ciò che sta morendo a Gaza insieme a decine di migliaia di civili inermi. Le azioni di questo governo israeliano stanno annientando dalle fondamenta il diritto internazionale. Stanno spazzando via ogni legge scritta, ogni trattato, ogni prassi, ogni deontologia. A Gaza muoiono i principi di legalità su cui si è fondato il nostro mondo, e diciamolo, il nostro benessere. A Gaza muoiono tutte le regole della guerra, perché anche nelle guerre più terribili ci sono dei codici. Ma questa, appunto, non è una guerra. L’impunità di Israele su ogni fronte militare, umanitario, giornalistico, morale è la nuova giurisprudenza che tutti i governi del mondo stanno scrivendo, con la loro inazione. Vale a dire: nessuna giurisprudenza. Nessun diritto.
Si dirà: tutto questo accade altrove, accade da tempo, senza clamore o attenzione, come in Sudan. Gaza è diverso, o meglio ancora Israele è diverso perché parla di noi. Parla di democrazia, di giustizia, di diritti. Israele è o dovrebbe essere un agente del “mondo libero”, Israele stesso è nato come riscatto della civiltà uscita dal terrore. Ed è per questo che il suo assalto all’alto castello del diritto è più letale.
Leo Valiani parlava, dopo la seconda guerra mondiale, di macerie materiali e morali. Le rovine con cui si è annichilita una intera area del mondo sono molto reali, ma lo sono anche le macerie della verità, perché nessun giornalista internazionale può entrare a Gaza, e sono oltre 200 i giornalisti palestinesi uccisi durante il conflitto. Ancora una volta, questa è una scelta. Questa è una strategia. Questa, se non la fermiamo, sarà la nuova norma delle guerre moderne nell’ “era dell’informazione”: la scomparsa dell’informazione indipendente, della notizia, della realtà stessa.
Infine, le rovine della coscienza di fronte alla più medievale delle atrocità: la fame, la disperazione della sopravvivenza che diventano ordigni per un annientamento morale ed esistenziale. E’ qui che la scienza del genocidio si rivela, nel “domicidio” di una terra non più (mai più?) abitabile, e nella spregevole strategia del blocco degli aiuti, o usati come esche da deportazione.
E’ così che il diritto diventa un “rovescio” internazionale, riunito in una sola parola: unilaterale. Si fa e basta, non importa quanto sia inaudito o impensabile. Perché se non ci sono conseguenze, non ci saranno più, secondo il principio caro a Primo Levi: “E’ avvenuto, quindi può accadere ancora”.
L’arsenale del coraggio
Viviamo tempi in cui l’audacia del male viene premiata, non soltanto in Medio Oriente. Non esiste quasi più soglia che non possa essere varcata, in ciò che rimane del diritto internazionale, e ora anche in quello umanitario. Che, a differenza del primo, regola i principi tra essere umani, non fra stati. Letteralmente, ci salva da noi stessi, dalle guerre che scateniamo, dalle catastrofi che generiamo o subiamo. Osare paga. Distruggere il paradigma del lecito e dell’accettabile è sinonimo di vittoria: militare, strategica, elettorale.
E allora, se fosse possibile contrapporre a tutta l’impunita protervia del male non una pari forza spregiudicata, non lo stesso gioco sporco, ma una carica uguale e contraria di audacia? Un arsenale non di ordigni ma di coraggio. Qualcosa che non è mai stato fatto per un bene comune e assoluto, come salvare una popolazione, riconoscere finalmente una nazione, rinegoziare radicalmente un rapporto politico, smettere di produrre e commercializzare guerra a queste condizioni, e che invece facciamo lo stesso. Anche se non ci sembra possibile. Anche se non ci sono precedenti. Addirittura, anche se è rischioso.
Osare il bene, con la stessa sfrontatezza con cui si sta osando e perpetrando il male. Abbiamo questa forza? Uscire dallo schema in cui ci siamo imbrigliati (una prassi politica, la consuetudine, le relazioni economiche, le interdipendenze, gli interessi bilaterali ecc…) e da cui con disinvoltura evade ogni nemico della pace, della democrazia, della giustizia, della vita altrui.
Liberiamo un bene temerario, se ne siamo capaci. Facciamolo per quello che urge davvero e prima di ogni considerazione: fermare una immane e intenzionale apocalisse umanitaria. E avremo la forza di ricominciare da lì, dimostrando che sì, si può fare. Essere la prima onda di una possibile, risoluta marea.
Sono arrivato in cima alla salita di Montesole esausto. Ho dovuto sostare più volte, per prendere fiato, per meditare se continuare. Ma per quanto fossi fuori allenamento ad affrontare una erta del genere, o prendere a dritto una via radicale, non ero solo. Altri marciavano, e soprattutto altri si fermavano, come me; per poi riprendere. Lassù, tra la gente e le bandiere e una umanità un po’ sfilacciata ma presente, mi sono chiesto quale fosse il prossimo passo, dopo la trascurabile impresa di conquistare il Poggiolo sopra Marzabotto e sotto 37 gradi.
Eccolo il prossimo passo. Scrivere per agire. Dire per muovere. Moto da logos. Ognuno porta quello che può. Casa Cervi, ad esempio, porta un piccolo grande popolo in contatto e sintonia con lo spirito dei tempi e il senso della storia. Tutte cose necessarie per l’audacia del bene di cui sopra.
Magari si può fare dai Campirossi (o da qualsiasi altra parte che si voglia) un discorso nuovo, che diventi un percorso vero. Inedito. Spudoratamente giusto.
Magari nessuno potrà mai pubblicare un testo di 1840 parole. O forse si, in barba alle leggi dell’editoria e della creanza. Un pensiero d’un fiato solo, con un tempo di lettura di 16 minuti. Si fa così, oggi, lo si deve indicare. Lo faccio anche io, ma alla fine…
Che la salita, se te la immagini troppo difficile, non la cominci mai.»
Mirco Zanoni
Coordinatore culturale Istituto Alcide Cervi
L’articolo è stato pubblicato venerdì 20 giugno 2025 su Domani in forma ridotta e sabato 22 giugno in versione integrale sulla Gazzetta di Reggio. Credits foto copertina: ANPI Nazionale.