CHI SIAMO

Da sempre in prima fila con la ricerca scientifica e la promozione culturale, nel campo della storia delle campagne, delle lotte democratiche e dei valori antifascisti alla base della nostra Repubblica.

 

L’Istituto Alcide Cervi è stato costituito il 24 aprile del 1972 a Reggio Emilia per iniziativa dell’Alleanza Nazionale dei Contadini (oggi Confederazione Italiana Agricoltori), dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, della Provincia di Reggio Emilia, e del Comune di Gattatico. Ha conseguito il riconoscimento di Personalità Giuridica di valenza nazionale dalla Presidenza della Repubblica, con D.P.R. n.533 del 18 luglio 1975.

LA NOSTRA STORIA

LA STORIA DEI CERVI

E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. Alcune ricostruzioni collocano il momento della fucilazione in altra ora. Tutte concordano sulla “discrezione” dell’eccidio: i documenti ufficiali rassicurano l’autorità sulla assenza di sguardi indiscreti. Così avvenne per la frettolosa tumulazione delle salme, ad evitare una qualunque forma di pubblica riconoscibilità di quell’atto madornale.

Sono forse le stesse, neonate gerarchie repubblichine a rendersi conto dell’enormità del gesto. Di certo, se ne avvedono le autorità “centrali”, di quello stato fascista che non c’è più ma che si vuole prolungare nell’ombra fosca dell’occupazione tedesca. Da Brescia, dove si improvvisano le sedi istituzionali della Repubblica di Salò, giunge una sola domanda, scarabocchiata sul verbale dell’esecuzione: “sono 7 fratelli?”

Nessuna notizia venne ostentata sulla sanguinosa rappresaglia ordinata dai maggiorenti della RSI reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani presso Bagnolo. Il Solco Fascista dello stesso giorno ricorda solo che “otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni…” sono stati passati per le armi all’alba di “oggi, 28 dicembre”. E’ immediata la percezione del crimine abnorme perpetrato, che rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia. I repubblichini riconoscono nella banda il primo vero nemico organizzato, con indizi schiaccianti a loro carico; ciò nonostante, la brutale rappresaglia segnerà per sempre la storia dei 20 mesi della Resistenza reggiana. I Cervi se ne vanno così, nel volgere di un anno convulso e lunghissimo. Nel livido silenzio dell’inverno ’43, quando ancora tutto deve accadere a Reggio Emilia, a Casa Cervi tutto sembra essere già finito.

E’ il punto in cui la storia deve fare qualche passo indietro. Ad un’altra alba, quella del 25 novembre dello stesso anno. Un mese prima, i Cervi vengono sorpresi insieme ad alcuni componenti della loro “banda” nella loro casa colonica. Siamo al podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, in aperta campagna reggiana. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali. Il Capitano Pilati è venuto in forze, “ufficialmente” 35 uomini, ma i testimoni in casa svegliati dall’accerchiamento ne contano molti di più. Cento, centocinquanta per alcuni. L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. Perchè la famiglia Cervi è una famiglia ribelle, i suoi sette figli maschi hanno preso (tra i primi a Reggio Emilia) le armi dopo l’8 settembre; e hanno fatto della loro casa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato. In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perchè in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme. L’incendio è certamente appiccato dagli assalitori, circostanza sempre negata dai diretti interessati. Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo. La resa è inevitabile

Vengono arrestati tutti i componenti della “banda Cervi”: i sette figli maschi di Alcide, il padre stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano: i sudafricani John David Bastiranse (Basti) e John Peter De Freitas (Jeppy), l’irlandese Samuel Boone Conley. Le loro strade si dividono presto, perchè ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore. Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane. Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’appenino. Ma queste, sono altre storie.

La sorte dei Cervi invece è quella di nemici dell’ordine pubblico. Ribelli sediziosi e comunisti; non va meglio al disertore della Milizia Volontaria Quarto Camurri, “italiano rinnegato” come recita la cronaca fascista della “brillante operazione di polizia militare”.

L’alba del 25 novembre è, negli occhi e nella memoria dei testimoni, ma anche dei conterranei dei Cervi, il vero consumarsi della tragedia. Mai prima di quel momento si era vista all’opera la macchina repressiva della RSI, mai il conflitto era arrivato così vicino. Per le 5 donne e i 10 bambini (alcuni in fasce) della casa ai Campirossi, sono i momenti della paura, del fuoco, del violento distacco dai propri affetti. Per la popolazione locale, il disvelamento del volto truce del fascismo in armi, disposto a tutto per il controllo del territorio.

In realtà la pianura reggiana era già immersa confronto in atto, tra le forze declinanti ma agguerrite del “nuovo” fascismo e la montante attività clandestina degli antifascisti organizzati. L’opzione delle armi, resa concreta dopo l’8 settembre, stava già portando i segnali di una lotta senza quartiere tra gappisti e repubblichini, alzando il livello dello scontro. I Cervi stessi fanno parte di quel movimento avanzato che all’indomani dell’Armistizio intende fare delle retrovie nazifasciste un luogo instabile, e della pianura reggiana un territorio ostile per gli occupanti e i collaborazionisti.

Ci sono dunque, molti antefatti a quelle due albe di violenza che portarono i Cervi al carcere di San Tommaso e un mese dopo al plotone di esecuzione. Il più importante di questi è la scelta precoce, radicale di opposizione al regime già a partire dagli anni ’30, nel culmine della parabola di consenso al Duce e all’impero coloniale. Per una famiglia di solide radici cattoliche, impegnata in politica già prima della dittatura, si tratta di una opzione naturale. Il fascismo aveva progressivamente spazzato via tutti i riferimenti pubblici che costituivano l’identità civile dei Cervi: Alcide, iscritto al Partito Popolare fino al 1921, e pure sensibile alla predicazione di Camillo Prampolini nelle campagne, ha educato i figli all’impegno coniugato alla fede. Dalla madre Genoeffa Cocconi, i 9 figli (si devono sempre aggiungere al computo le figlie Rina e Diomira) hanno preso l’amore per la lettura, l’inquietudine culturale e la sete di conoscenza. Sono autodidatti, i Cervi, spinti da un desiderio di emancipazione sociale che passa per il lavoro nei campi, l’innovazione nella stalla.

Da mezzadri ad affittuari, nel volgere del primo decennio fascista la già numerosa famiglia Cervi cerca una strada nuova. Si trasferiscono nel 1934 al podere ai Campirossi, tra Caprara e Praticello. Che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Studiano, sperimentano, falliscono e riescono più volte. Con la stessa irrequieta dedizione, Aldo Cervi è il primo a maturare una compiuta coscienza antifascista; abbraccia l’ideologia comunista, lui che era stato un attivista in prima fila per l’azione cattolica locale. Ed è insieme a Didimo Ferrari, altro campeginese noto nella storia partigiana, che prende corpo l’idea di una Biblioteca Popolare. Libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi: un’intuizione sorprendente per una famiglia di contadini, non certo di intellettuali; che aveva, però, sperimentato sul campo l’efficacia del sapere. Più studio significava più latte dalle mucche, più resa dei campi. Padroni del proprio lavoro, e così delle proprie idee.

Con ruoli e intensità diversi, tutta la famiglia partecipa alla marcia di Aldo verso lo scontro con il fascismo. Dalla lotta all’ammasso (il conferimento forzoso al regime di produzione agricola), passando per i primi volantini, Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato. Le informative su questa famiglia di irrequieti contadini, e di chiare simpatie comuniste, si accumulano sui tavoli della autorità. Non solo il terzogenito Aldo, ma anche Gelindo e Ferdinando sono fatti oggetto di segnalazioni e provvedimenti restrittivi tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40. Il cammino politico dei Cervi è complesso e articolato, risulta impossibile comprimerlo in poche righe. Ricalca lo stesso percorso carsico dell’antifascismo minoritario, delle avanguardie del movimento in quegli anni. Allo stesso tempo, ne presenta tratti unici, legati all’esperienza di riscatto sociale e produttivo.

Saranno gli incontri personali, nient’affatto casuali, a fare la differenza. Cosi come era stato con “Eros”, la movimentata gioventù antifascista si cerca e si ritrova nella clandestinità. Lucia Sarzi, attrice itinerante e già militante comunista, porterà ad Aldo e ai suoi fratelli nuovi spazi operativi, contatti, legami con i centri clandestini della nascente resistenza. Nel frattempo, i Cervi non rinunciano al loro progetto di agricoltura di progresso. Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39, seguito dal più potente Landini a testa calda due anni dopo. La stessa abitazione si amplia per contenere l’espansione produttiva del podere nel 1941.

Per loro, contadini di scienza di giorno e cospiratori di notte, non è certo facile abbandonare gli affetti domestici, la famiglia che nel frattempo si è completata di 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto). Ma sono tra i primi a farlo, pronti a rompere gli indugi già un mese dopo l’armistizio. Tanto precoce è la loro scelta, così lo è la loro irruenza per passare dalla propaganda all’azione. Anche in contrasto con gli altri compagni di lotta che attendono, pianificano, e non condividono l’approccio immediato della nascente “banda Cervi”. Aldo, Otello Sarzi, Dante Castellucci, Tarassov e altri Cervi saliranno in montagna nell’ottobre del 1943, non prima di aver trasformato la casa ai Campirossi in un centro di latitanza. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro con Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari.

Sono gli ultimi, convulsi giorni dei Cervi liberi. La Resistenza è già una realtà, ma dal percorso incerto e ancora acerbo nel 1943, anche in una terra di passioni democratiche come Reggio Emilia. Spintasi oltre il confine della clandestinità, in un contesto non ancora strutturato e conflittuale, la banda Cervi rimane isolata. Ed ecco arrivare la cattura, dopo meno di 80 giorni dall’8 settembre.

Per restituirci l’umanità del primo sacrificio reggiano alla Resistenza, vale la pena, in conclusione, sfogliare le lettere che i fratelli scrivono a casa, nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione. Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti. Le prime raccomandazioni sono per il podere, il timore che la fatica del lavoro vada in fumo. Quasi che la parentesi della cattura sia solo una pausa dall’operosità dei campi e della stalla. Poi la consapevolezza, sempre più concreta, che i piani dei fascisti sono altri. Gli affetti lontani, la madre e le mogli, i figli. E’ un commiato sfilacciato e mai definitivo, quello che si consuma con la famiglia. Fino all’epilogo, che impedirà a Papà Cervi, loro compagno di cella fino alla fine, di congedarli prima della traduzione al poligono.

Il 28 dicembre 1943, nel modo peggiore possibile, cala il sipario sull’intervento diretto dei Cervi nella Resistenza reggiana. Un contributo folgorante e annichilito anzitempo. E inizia, da quel momento, il loro ruolo simbolico, che attraverserà tutta la storia della Liberazione locale, e oltre la guerra ne incarnerà il sacrificio e la dedizione.

LE DONNE DEI CERVI

“…il padre è forte e rincuora i nipoti / dopo un racconto ne viene un altro / ma io sono soltanto una mamma / o figli cari / vengo con voi”.

Sono i versi finali della celebre epigrafe dedicata da Piero Calamandrei a Genoeffa Cocconi. Mamma Cervi scompare a 68 anni il 15 novembre 1944, a seguito della prostrazione per la perdita dei figli, e di un ulteriore assalto fascista alla casa un mese prima. La narrazione ci ha consegnato una figura dolente, vinta dal crepacuore. Ma Genoeffa non è “soltanto una mamma”: è la resdòra, la reggitrice delle sorti domestiche, così come la custode dell’etica credente in una casa attraversata dalla passione politica. Da lei vengono i primi libri che i figli maneggiano, è la sua voce nella stalla a donare il piacere della lettura. E’ sempre lei che regge l’ansia del pericolo costante per l’attività clandestina, il rifugio degli sbandati, fino a portare il peso del segreto di fronte al convalescente Alcide, di ritorno dal carcere e ignaro della fucilazione.

La memoria dei Cervi comincia dopo la sua scomparsa, e il racconto la cristallizza nella madre che non c’è più. Del resto, tutta l’epica e l’iconografia di questa vicenda è un testo al maschile. Uomini sono i sette martiri, uomo è il “sopravvissuto” Alcide. Ma la storia della famiglia che entra e prosegue oltre la tragedia, è una partitura corale: fatta di donne, oltre che di madri, mogli, sorelle, e di giovani, oltre che di figli e nipoti. Casa Cervi, del resto, è sempre stata un posto speciale per lo stesso ruolo femminile nella storia, e se i maschi hanno il trattore nei campi, le donne hanno la macchina da cucire. Il progresso aveva già, sotto questo tetto, le sue pari opportunità.

Ci sono le due sorelle Rina e Diomira, che escono da casa e (parzialmente) dalla trama quando si sposano. Così voleva la tradizione. Di conseguenza, entrano in scena le 3 mogli e la compagna di chi ha potuto mettere su famiglia. Le quattro vedove di Casa Cervi saranno figure centrali per tutto il dopoguerra.

Iolanda Bigi, Margherita Agoleti, Verina Castagnetti e Irnes Bigi sono figure cui è demandata, nell’immediatezza della perdita e nei primi anni dopo il ’45, la tenuta della famiglia: ci sono undici figli da crescere, unitamente alla conduzione della cascina che vedrà il cugino Massimo Cervi (anch’egli protagonista di alcune azioni partigiane e tra i primi cooperatori della Reggio liberata) in un ruolo di riferimento per tutti. Insieme a qualche salariato e ai ragazzi più grandi che crescono e possono lavorare, il podere va avanti. Nei primi anni ’50 i Cervi riescono addirittura ad acquistare i Campirossi, uscendo dalla affittanza e tentando di proseguire la tradizione familiare. Ma sono anche gli anni del progressivo abbandono della campagne, e a poco a poco alcuni rami della discendenza prendono strade diverse.

La casa rimane, tuttavia, sempre presidiata dai membri della famiglia: c’è ovviamente il vecchio Alcide, e insieme a lui rimangono nell’ultima parte della sua vita Iolanda e i tre figli, dopo che nel’59 si formalizzano i 4 nuclei familiari. Sarà poi Irnes, la vedova di Agostino a raccogliere la prima staffetta della testimonianza sul posto dopo la scomparsa di Papà Cervi, insieme alla custodia del luogo di memoria con Massimo. Ma anche in questo caso è una storia corale, in gran parte già strutturata nel racconto pubblico che ha creato il mito dei Cervi, e che gli eredi vivono ciascuno a modo suo.

Anche le vedove, infatti, una dopo l’altra lasciano l’onere della memoria alla seconda generazione. Dopo la scomparsa prematura di Iolanda (1965), e la dipartita di Irnes nel 1986, che pure aveva seguito i primi anni della creazione del Museo Cervi, Margherita muore nel 1995, non prima di aver lasciato un prezioso lascito di memorie sugli anni più duri della famiglia. L’ultima ad andarsene è Verina, la compagna di Aldo: una donna schiva, forse provata più di tutte dalla vicenda personale e dai patimenti succedutisi.

Tra i nipoti (il riferimento genealogico rimane Papà Cervi), la più grande è Maria, la prima figlia di Antenore. Un’altra donna centrale della storia di casa, legata alla crescita dell’Istituto Cervi e agli ultimi decenni. Mentre il Museo Cervi è diventato ormai patrimonio pubblico, la memoria familiare si sovrappone e si sublima nell’attività culturale e scientifica dell’Istituto dedicato ad Alcide. Maria Cervi, che a questo progetto aveva dedicato buona parte della sua vita, e che aveva retto sulle sue spalle buona parte della memoria elaborata della famiglia, si spegne nel 2007.

Oggi ai Campirossi abita ancora un Cervi, come deve essere. E’ Luciana, figlia di Agostino e di Irnes. E il podere è mantenuto in attività da un locatario. Il luogo di memoria è un bene della comunità reggiana, e un sito storico vincolato; sede dell’ampia attività culturale dell’Istituto. Gli eredi hanno preso ciascuno la propria strada, ma hanno mantenuto un legame fortissimo il luogo e la loro storia, eternamente sospesa tra pubblico e privato.

UN'ICONA SOLA, MA SETTE BIOGRAFIE, PIU' UNA

Spesso consegnati al racconto e all’immaginario pubblico come cosa sola, i fratelli Cervi sono sette storie distinte. Tra memoria e narrazione, non è facile separare queste biografie, insieme al ricordo dell’ottavo giustiziato, il disertore e partigiano Quarto Camurri.

Gelindo Cervi nasce il 7 agosto 1901 a Campegine : è il primo di nove figli (di cui sette fratelli e due sorelle). Nel 1934 sposa Iolanda Bigi, dalla quale avrà tre figli:i gemelli Alcide e Giovanni, mentre il più giovane porterà lo stesso nome del padre, essendo nato nel febbraio 1944, due mesi dopo la fucilazione del padre.

Gelindo affianca il padre Alcide nella ricerca di un nuovo podere, che li porterà nel ’34 ai Campirossi. E’ protagonista, insieme ai fratelli più grandi, della poderosa opera di livellamento dei terreni, ed è spesso con Aldo nei primi passi verso l’attività politica. Non nasconde la sua avversione al fascismo, ricevendo un primo procedimento già nel 1939, e nuovamente arrestato nel 1942 insieme al fratello Ferdinando, per l’attività di elusione dell’ammasso.

Appassionato lettore, partecipa con assiduità ai corsi di perfezionamento agricolo frequentati da molti fratelli. Nella ampia memorialistica sulla famiglia, Gelindo recita il ruolo del fratello maggiore, risoluto e insieme saggio, una voce autorevole in famiglia. E’ lui, secondo il racconto, ad invitare un fascista ad unirsi alla pastasciutta del 25 luglio in piazza a Campegine. Nella ricostruzione cinematografica, non a caso, è affidato al volto solido di Riccardo Cucciolla.

Aveva 42 anni e un terzo figlio in attesa quando i fascisti lo fucilano.

Antenore Cervi è il secondogenito di Casa Cervi; nasce nel 1906 a Campegine, e si rende fin da giovane utile in famiglia. Nel 1933, primo a mettere su famiglia, sposa Margherita Agoleti e, l’anno successivo, insieme al padre e ai fratelli, si trasferisce in località Campi Rossi, nel Comune di Gattatico. La figlia Maria, seguita a breve distanza da altri 2 pargoli, sarà la prima bimba di Casa Cervi; la memoria ci riporta l’episodio delle campane fatte suonare a festa in occasione della sua nascita, privilegio normalmente “riservato” ai figli maschi.
Dalle memorie di Papà Cervi, passando per il racconto di altri narratori, ci viene consegnata una figura silenziosa e riflessiva. “Il figlio più selvatico, non parlava mai”, diceva Alcide, mentre Calvino lo definisce il “taciturno Antenore”, riconosciuto da tutti come uno delle menti più dotate della famiglia.

Nella divisione dei compiti, il secondo figlio era assegnato alla cura dei campi, ed era il falegname di casa. “Continuava a tirar su figli, a far mobili, a seminare e fare raccolti”, ricorda il compagno di lotta Anatolij Tarassov.

Antenore muore a trentanove anni, lasciando la piccola Maria di 9 anni, Liugi di sette e Ennio di sei anni.

Aldo Cervi, classe 1909, è certamente il più noto dei sette fratelli. Intraprendente, inquieto, intransigente con se stesso e con il proprio tempo. Nelle principali narrazioni, la centralità di Aldo emerge in maniera prorompente. Ne “i miei sette figli” il suo nome viene citato 197 volte, a fronte delle quaranta del primogenito Gelindo. E’ lo stesso Alcide a riconoscere che “Aldo mi ha dato quel poco che ho di intelligenza politica”. Ed è questa irrequietezza civile ad animare tute le azioni di Aldo, a partire dalla prigione scontata per insubordinazione sotto le armi, nel 1929. All’ “università del carcere”, Gino (il nome con cui in famiglia veniva chiamato) apprende i rudimenti della dottrina comunista, che coniuga con la propria militanza, già sperimentata da giovanissimo nel campo dell’Azione Cattolica prima del fascismo. E sarà proprio lui a seminare in famiglia il germe della ribellione. La storia dell’antifascismo praticato dei Cervi ricalca spesso la biografia di Aldo. Dai contatti con Lucia Sarzi, alle prima azioni culturali e solidali contro il regime. Una vicenda personale impossibile da comprimere in poche righe.

A fianco dell’attivismo, spesso molto esposto, di Aldo, c’è la sua vicenda privata: la compagna Verina Castagnetti, portata in casa senza matrimonio, come ulteriore gesto di rottura verso i sacramenti di un clero (lui di provenienza fieramente cattolica) che non riconosceva più durante il regime. I due figli, Antonietta e Adelmo, nati quando la sua dedizione alla causa antifascista ne faceva un uomo in costante movimento. Fino all’epilogo, che lui stesso dava quasi per scontato, almeno per se medesimo.

Ferdinando Cervi è il quinto arrivato nel matrimonio di Alcide e Genoeffa, nel 1911. Lo “zio Nando”, nelle memorie dei nipoti, è l’intraprendente sperimentatore di nuove tecniche, l’esperto di api che porta ai bambini il sapore dolce del miele. Ma è anche un lucido antifascista della prima ora, sempre pronto all’azione e alla dichiarazione dei propri intendimenti. Con la stessa determinazione, lotta a fianco del padre e dei fratelli più grandi per l’emancipazione dalla condizione mezzadrile, contestando spesso la subalternità cui è costretta la famiglia contadina. Segue con dedizione le tracce di Aldo e Gelindo nella militanza, e con quest’ultimo sarà arrestato nel 1942 per la resistenza alla requisizione delle derrate alimentari, e altre azioni di boicottaggio economico nei confronti del regime. E sempre lui, insieme al fratello Agostino e al cugino Massimo, a sabotare il traliccio dell’alta tensione a S.Ilario d’Enza.

Ferdinando arriva celibe al plotone di esecuzione, la sua vita si spegne a 32 anni.

Agostino Cervi nasce l’11 gennaio 1916, e “veniva su il più bello di tutti”, parola di Papà Cervi. Agostino ha un ruolo di rilievo nella narrazione dell’epopea familiare, grazie al suo spirito gioviale e alla dedizione entusiasta al lavoro, fin dalla grande fatica del livellamento del podere ai Campirossi. A lui è affidata la cruciale responsabilità della stalla, insieme ai fratelli minori, cui dedica non meno impegno che nella discussione in casa e nell’azione di cospirazione antifascista. Insieme ad Aldo, nei ricordi familiari, si contende il merito di aver chiesto in omaggio il famoso mappamondo, dopo l’acquisto dell’altrettanto celebre primo trattore.

E’ il più giovane dei fratelli sposati, e dall’unione con Irnes Bigi nasceranno presto, nel cuore della guerra, Luciana, Antonio e Mario.

Agostino è protagonista di diverse azioni, quali l’abbattimento del palo elettrico a S.Ilario, come dei numerosi viaggi di vettovagliamento dalla pianura alla montagna per rifornire la banda dei fratelli. Mantiene sempre uno sguardo commosso alla famiglia, a cui dedica gli ultimi pensieri in carcere prima della fucilazione. A ventisette anni, Agostino lascia una giovane moglie e tre figli piccolissimi.

Ovidio Cervi nasce il 13 marzo 1918 a Campegine, il penultimo dei nove figli di Casa Cervi. Una figura che rimane un po’ in ombra nelle memorie famigliari, citato spesso per episodi della sua infanzia, e a cui la narrazione ha affidato spesso il ruolo di coscienza critica, di cautela rispetto all’esuberante intraprendenza di altri fratelli. Insieme ad Agostino, è colui che cura la stalla ai Campirossi. Spirito giovanile e allegro (così ce lo restituisce Calvino), a lui è spesso affidata nella ricostruzione letteraria la parte dell’indisponibilità etica alla violenza, così come alla seduzione fascista. La guerra, l’azione, il convulso precipitare degli eventi, impediranno ad Ovidio di costruirsi una famiglia. Durante la prigionia, scriverà a casa una sola lettera, dove confida ancora in un buon esito della loro sorte. Nel film “I sette fratelli Cervi”, è il fratello che si copre il volto con le mani prima degli spari. I fascisti lo fucilano a soli 25 anni, lasciando nella sua unica missiva un (forse) involontario commiato “a chi lavora per noi, e noi in cambio dormiremo per loro”

Ettore Cervi è il più giovane dei sette fratelli. Nasce il 2 giugno del 1921, ed inevitabilmente ricordato come il “piccolo e il più caro ” di casa nelle memorie familiari. E’ l’unico dei fratelli a prestare servizio sotto le armi durante la guerra, che altri avevano evitato grazie ad espedienti e varie resistenze. C’è un naturale desiderio di emergere da uomo, da parte del più giovane della famiglia, che lo porterà sul fronte jugoslavo per due anni. Dove comprende a pieno la natura della guerra fascista, e assumono nuovo significato le discussioni di cui era stato testimone nella stalla ai Campirossi. Ettore dunque, che non partecipa alla fase più intensa dell’antifascismo militante dei fratelli, è comunque insieme a loro nell’anno decisivo, il 1943. Sarà catturato insieme a loro il 25 novembre, e scriverà dal carcere due lettere a casa. La seconda, datata 27 dicembre, è l’ultima notizia proveniente dai Cervi prima del tragico epilogo. Alle sue parole è affidato dunque il simbolico epitaffio dei sette fratelli, pur non essendo noto se fossero coscienti dell’imminente fine: “Sempre coraggio, e tutto sarà niente”. Sono gli ultimi, folgoranti pensieri del più giovane dei Cervi, fucilato a 22 anni.

Quarto Camurri è nato a Guastalla nel 1921. Coetaneo di Ettore Cervi, si arruola nella Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale nell’ottobre del 1943 e viene incorporato nel1° Battaglione 2° Corpo della 79° Legione. Il giovane Camurri, tuttavia, matura presto l’intendimento di abbandonare le armi repubblichine. Nel novembre successivo diserta ed entra in contatto con la “banda” di Aldo Cervi in montagna, nei pressi del Monte Ventasso, sull’Appennino reggiano. Le memorie di Papà Cervi raccontano l’incontro dapprima diffidente con i figli, fino ad arrivare alla sua integrazione nella banda. “Si chiama Quarto Camurri, ed è un bravo ragazzo”.
Camurri è l’esempio di una generazione di giovani italiani dapprima sedotti dai richiami fascisti alla patria tradita, ma che in poco tempo apre gli occhi sulla realtà.

Condivide con i Cervi il resto del loro tragico percorso: arrestato nella loro casa il 25 novembre 1943, sarà fucilato insieme ai sette fratelli il 28 dicembre. E’ l’ottavo prigioniero della rappresaglia comminata dai fascisti reggiani, lezione esemplare per i ragazzi che intendono abbandonare la RSI. La sua figura è stata recentemente riscoperta e rivalutata, al fianco della più nota vicenda dei sette fratelli.

ALCIDE CERVI

“Maledetta la pietà, e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perchè io non capissi, e restassi vivo al vostro posto!”

Con questa frase Papà Cervi ne “I miei sette figli” congeda dolorosamente i figli a distanza. Alcide condivide con loro i giorni in carcere. Ma non la tragica sorte. La sua storia, che pure è indissolubilmente legata a tutto ciò che accaduto prima, inizia in qualche modo dopo l’eccidio, quando cessa di essere Alcide Cervi e diventa invece Papà Cervi.

All’età di 68 anni, l’anziano padre soffre i rigori della prigionia. Più di tutto patisce l’assenza di notizie dai figli, che non ha più visto tornare al carcere di San Tommaso dopo quel 28 dicembre. Sarà il bombardamento alleato di Reggio Emilia, il 9 gennaio 1944, a dargli la possibilità di fuga. Dalla prigione colpita dalle bombe, Alcide ripara a casa, dove ha una lunga convalescenza di 40 giorni. Un periodo nel quale la famiglia non vorrà gravare sulle sue condizioni, nascondendogli l’accaduto.

Mentre Casa Cervi lentamente si risolleva dalla tragedia, Papà Cervi matura la decisione di non abbandonare l’abitazione: le braccia per i 20 ettari sono poche, i segni dell’assalto ancora visibili, la memoria del dolore è cocente. Ma quella è la casa dei suoi sette figli “cresciuti con 40 anni di fatiche”. Non la lascerà nonostante gli abbiano “mietuto una generazione”. Nemmeno quando i fasisti locali torneranno nell’autunno ’44 ad incendiare l’abitazione, e di li a poco Genoeffa lo lascerà ancora più solo.

Ci sono due piani sovrapposti in questo patriarca, il cui volto è diventato familiare e iconico nelle generazioni di Italiani che si sono succedute. C’è una prima dimensione pubblica, che inizia dai funerali dei 7 fratelli Cervi a Campegine il 25 ottobre 1945. Solo allora infatti fu possibile mettere a definitivo riposo i resti dei figli, dopo che lo stesso bombardamento di gennaio ’44 ne aveva martoriato le tombe. Alcide è sul balcone del municipio di Campegine, e pronuncerà la frase che ne segnerà tutta l’esistenza: “dopo un raccolto ne viene un altro”. In quell’istante nasce la personalità pubblica di Papà Cervi. Dapprima su scala locale, poi nelle celebrazioni reggiane dell’immediato dopoguerra.

Ma è il suo costante presidio di Casa Cervi a plasmare l’immagine di Alcide come custode e simbolo di questa storia. E’ in questo spazio sospeso tra ambito domestico e luogo pubblico che si rivela anche la dimensione privata, del lutto personale e intimo messo a disposizione della memoria collettiva. Per 25 lunghi anni Papà Cervi è il volto incavato della Resistenza italiana, più a suo agio nell’accoglienza (a volte discreta e dolente, a volte più aperta) nella cascina di campagna, ma sempre disponibile a portare la sua presenza nelle celebrazioni in tutta Italia. Parallelamente, è il “nonòn” dei bimbi, poi ragazzi, ora adulti della seconda generazione di Casa Cervi. Riferimento e collante della famiglia che deve comunque affrontare una difficile ricostruzione materiale, come degli affetti.

Alcide Cervi si concede con composta benevolenza a questo ruolo di icona, consacrata dalle visite ufficiali, celebrata e diffusa (oggi diremmo in modo “virale”) soprattutto grazie alle sue memorie scritte, nel 1955. Il corpo di Alcide, che la avanzatissima età e il dolore non hanno ancora piegato, è un tuttuno con gli oggetti della sua immagine: il cappello, sempre calzato a Casa Cervi, rispettosamente calato nei consessi ufficiali; le sette medaglie d’argento al valor militare, l’onorificenza postuma ai sette figli, sempre sul “giubèt”, esibite con sobrio orgoglio. Una figura fatta per rimanere impressa nella memoria italiana, che ha bisogno di simboli in cui specchiarsi.La sua abitazione, del resto, è uno spazio aperto, costantemente visitato da gruppi organizzati, così come da un continuo pellegrinaggio privato, mano a mano che questa storia si diffonde.

La “vecchia quercia”, soprannome assegnatoli dall’oratoria antifascista, si spegne a 95 anni, il 27 marzo 1970. Le sue esequie a Reggio Emilia sono un evento nazionale di prima grandezza, oltre 200.000 persone affollano le strade e la piazza dell’ultimo saluto. Gli rendono omaggio tutte le grandi personalità della politica e delle istituzioni legate alla storia antifascista, così come testimonianze di cordoglio giungono da ogni parte d’Italia e del mondo, spesso da semplici cittadini che l’avevano conosciuto, un giorno, sotto il portico ai Campirossi. Ferruccio Parri lo onorerà con una toccante orazione funebre.

Fin dalla fine della guerra aver consolidato, incarnandolo fisicamente, il “mito” dei sette figli. Versione da umanesimo contadino de “i sommersi e i salvati”. Da ultimo, dopo aver lungamente meditato sulla conservazione di questa memoria, su come essa potesse sopravvivere alla sua uscita di scena, aveva maturato un’altra importante intuizione: il patrimonio ideale, morale, materiale di Casa Cervi doveva diventare un possesso pubblico, proseguendo quella sete di conoscenza che aveva animato i suoi figli. La terra e la libertà. Era già in questo testamento spirituale la nascita dell’Istituto che porta il suo nome.

Raccogliendo lo straordinario patrimonio di valori rappresentato dalla figura di Alcide Cervi, insieme alla memoria dei suoi sette figli martiri dell’antifascismo, l’Istituto parte dalla esperienza della campagna emiliana per lavorare con coerenza e impegno per la salvaguardia dei valori alla base della Costituzione Repubblicana. Nella formazione e nella didattica, nella ricerca storica e nella diffusione della memoria, si pone in primo piano nel rapporto con le istituzioni locali e nazionali, in stretta collaborazione con enti culturali ed accademici a tutto campo.

LUOGO DI MEMORIA

…dove il patrimonio materiale e immateriale fa da collante fra continuità e modernità. Scopri QUI  le ultime iniziative e i progetti legati a questo argomento!

LUOGO DI RICERCA

…dove si concretizza la capacità e la volontà di porsi come soggetto capace di pensare e realizzare. Scopri QUI i progetti e le iniziative legati a questo argomento!

LUOGO DI FORMAZIONE

…dove emergono la capacità di coinvolgimento, la facilità di divulgazione e immediatezza di messaggio. Scopri QUI le iniziative per la didattica e le scuole di formazione!

MIUR -Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca
L’Istituto Alcide Cervi è Ente accreditato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca come Ente per la formazione prot. n.° A00DGPER: 6491 con decreto del 03/08/2011.
In data 19 luglio 2016 si è firmato il Protocollo d’Intesa tra il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e l’Istituto Alcide Cervi sulla “Promozione di iniziative, richerche e studi sul paesaggio multiculturale della scuola italiana e sull’integrazione scolastica dei minori stranieri” col fine di promuovere un programma pluriennale di attività in merito alla diffusione dei dati e delle esperienze emerse dalla ricerca riguardo il tema della multiculturalità e del suo incontro con la memoria democratica italiana ed europea.

UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER L’EMILIA ROMAGNA
Un’importante collaborazione firma il protocollo d’intesa che si rinnova dal 2011 e che sigla l’arricchimento e le proposte formative ed educative del Cervi rivolte al territorio regionale con prot. n.° 0001899 in data 23/02/2016.

MIBACT – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
L’8 giugno 2016 a Bologna è stata siglata una convenzione tra il Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per l’Emilia-Romagna e l’Istituto Alcide Cervi per sviluppare percorsi didattico-formativi sul tema del Paesaggio, destinati a insegnanti e studenti in attuazione della L.105/2015 a cui si deve l’introduzione dell’obbligo dell’Alternanza Scuola-Lavoro per gli studenti degli istituti superiori. La collaborazione tra le due Istituzioni prevede l’organizzazione e partecipazione ad eventi culturali pubblici di livello nazionale ed internazionale dedicati alla conoscenza, alla valorizzazione e allo sviluppo del paesaggio, della cultura e identità dei luoghi. Prevede inoltre la progettazione e la gestione di attività di alta formazione sull’analisi e studio del paesaggio agrario storico, sulla pianificazione paesaggistica e sulla valorizzazione territoriale, rivolta a professionisti, docenti, funzionari pubblici e amministratori.

LE STRUTTURE DELL'ISTITUTO CERVI

L’Istituto Alcide Cervi gestisce il MUSEO CERVI, cuore operativo delle proprie attività, la BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI che ospita il patrimonio librario e documentario del grande studioso dell’agricoltura e l’Archivio storico nazionale dei movimenti contadini, e le attività del PARCO AGROAMBIENTALE, un percorso guidato all’aperto sorto sulla terra dei Cervi, che illustra e valorizza le risorse naturali della media pianura padana e il rapporto fra uomo e paesaggio nella trasformazione agricola nelle campagne.