Intervista a Beppe Casales > Sotto la grande quercia

Blog a cura di Raffaella Ilari
con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico
del 18° Festival di Resistenza
 

Nazieuropa: uno spettacolo contro l’indifferenza

Intervista a Beppe Casales
Di Raffaella Ilari

 

La parola, la musica, le immagini. Una lettera a una figlia e un viaggio che parte dalla Germania degli anni ’30 e arriva all’Europa del nuovo nazionalismo. È Nazieuropa il monologo di Beppe Casales, dal titolo provocatorio (termine usato su twitter da un gruppo di estrema destra) che nasce dalla rabbia e vergogna dell’attore e autore padovano per l’affermarsi dei nuovi nazionalismi e il razzismo diffuso. Nazieuropa è l’invito a sottrarsi all’indifferenza e al pericolo di diventare disumani. E a guardare il presente con gli occhi ben aperti.

Nazieuropa è una domanda che nasce da un parallelismo: che differenza c’è tra la Germania nazista e l’Europa contemporanea?
Forse sarebbe il caso di parlare delle analogie, che sono molte. La discriminazione contro gli ebrei non è venuta fuori tutta insieme. Le leggi sono cresciute piano piano, assieme a un sentimento diffuso tra la popolazione. Il fatto che milioni di tedeschi per bene si sono lentamente ritrovati ad essere razzisti, ci parla di quello che ci sta succedendo ora, a noi europei.

Da cosa nasce lo spettacolo?
Lo spettacolo nasce da due sentimenti: la vergogna e la rabbia. La mia vergogna e la mia rabbia di fronte alle infinite morti nel Mediterraneo. Mi sono ritrovato a pensare che non stavo facendo abbastanza, che il mio silenzio era complice di chi permetteva e permette quelle morti.

Cosa raccontare del nostro presente a quella bambina alla quale tu rivolgi la lettera, e quindi alle future generazioni?
A quella bambina racconto che ci dobbiamo sentire responsabili di tutto. Che ci dobbiamo prendere la responsabilità della nostra vita, della nostra felicità o insoddisfazione, che tutto parte da lì, per finire poi alle relazioni che costruiamo. A quella bambina racconto che l’empatia è la chiave di tutto.

Cambiando le parole che usiamo, cambiamo la realtà che vediamo. In questo quali responsabilità ha il teatro?
Le forme di comunicazione sono strumenti, dipende molto da cosa te ne fai. Da quando è nato, il teatro è stato uno strumento per orientarsi nella complessità delle cose. In Italia ancora resiste un teatro che parla del presente, ma è sicuramente minoritario. Le persone hanno voglia di riflettere sul presente, per cui spero che possa crescere sempre di più un teatro contemporaneo che parli a chi vive adesso, ai ragazzi e alle ragazze che hanno la necessità di mettersi in discussione.

Come è stato accolto lo spettacolo? E quale pensi possa essere il modo più efficace, oggi, per fare memoria?
Lo spettacolo, che finora ha fatto una cinquantina di repliche, è stato accolto molto bene. Il pubblico spesso reagisce emotivamente, piangendo o arrabbiandosi, e per me questo è importantissimo, perché accanto al lato razionale c’è una connessione più profonda, che è quella emotiva. Ecco, credo che il modo più efficace sia proprio questo, cercare di unire queste due componenti. Per parlare a tutti bisogna essere credibili e sinceri, dove per sincerità intendo un reale mettersi a nudo. Esporsi, senza paura del giudizio. Penso sia la cosa più rischiosa e più bella che possiamo fare.

 

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