Sulla Commemorazione di Don Pasquino Borghi (di Fiorella Ferrarini)

Commemorazione di Don Pasquino Borghi, gennaio 2018

“Beati i miti perché erediteranno la terra”.

Così iniziava la commemorazione di Don Pasquino Borghi proposta da Massimo Storchi presso il Poligono di Tiro di Reggio Emilia nel febbraio del 2011. Efficace la beatitudine dei miti, che lavorano per edificare una società più giusta e più vera!

Il prossimo 30 gennaio saremo ancora insieme a fare memoria di “Albertario” (da tanti definito “martire della libertà e della carità” per la totale oblazione di sé), e dei patrioti che, senza alcun processo, né interrogatori, né testimonianze e contro tutte le regole, sono stati fucilati all’alba del 30 gennaio 1944 dai fascisti. Il crudele gesto di repressione che doveva essere esemplare per coloro che si opponevano al regime dittatoriale, ottenne invece il pronto risveglio delle coscienze.

Il suo soprabito, con i sette fori dei proiettili, fino ad ora custodito nei locali di Istoreco, sarà consegnato e definitivamente esposto nella Sagrestia della Chiesa di S. Pellegrino; manca la veste talare di Don Pasquino, distrutta a causa delle percosse e delle violenze subite nelle carceri di Villa Minozzo, dei Servi e di Scandiano. In seguito anche tutti gli oggetti saranno esposti in una saletta attigua perché siano occasione di conoscenza del suo impegno resistenziale e della sua spiritualità.

È significativo descrivere alcuni aspetti della vita di Don Pasquino, cadenzandoli attraverso i tanti incontri decisivi. Presso il Seminario di Marola, ai docenti e agli amici della “camerata S. Francesco di Sales”, dove sente in tutta la sua profondità il valore di un rigoroso ascetismo personale, scrive:

“Non ci sono nella vita delle ore in cui bisogna santificarsi e delle ore in cui bisogna riposare: tutti i nostri istanti debbono essere santi; tutti i nostri pensieri; santi tutti i nostri affetti; sante le nostre parole e le nostre azioni”.

I sette anni in missione nel Sudan Anglo-Egiziano, in condizioni proibitive di vita e a contatto con popoli primitivi (“mi sono cari come figli!”), gli donano uno sguardo di perenne accoglienza e di offerta di sé, nel totale rispetto della dignità dell’altro come fratello. Seguono due anni di umile lavoro e di contemplazione come frate certosino a Farneta, poi con la dispensa del Papa, torna al sacerdozio secolare. Dopo alcuni mesi, dodici suoi confratelli della Certosa saranno trucidati dai tedeschi per le stesse ‘ragioni’ per le quali don Pasquino morirà.

E quindi altri incontri decisivi a Canolo di Correggio, come curato per più di tre anni: con don Orlando Poppi e don Mario Grazioli, sacerdoti antifascisti con cui, scrive Sandro Spreafico, “sembra già realizzarsi una cellula di Chiesa resistente”. In seguito don Grazioli e don Enzo Neviani (cappellano presso l’ospedale di Correggio) saranno internati in Germania. A Tapignola giunge nell’ottobre del ’43 e “l’aiuto ai prigionieri alleati in fuga e l’ospitalità data ai primi partigiani – ai quali donava i suoi stessi effetti personali – gli sembrano un’opera di carità irrinunciabile”.

In montagna si profila subito ‘la via delle canoniche’ nella stretta collaborazione di don Pasquino con i tanti parroci, “che seppero coniugare carità e coraggio, impegnandosi senza riserve nella lotta resistenziale, ritrovando un patriottismo in ordine con la fede” (Sandro Spreafico): don Domenico Orlandini “Carlo”, don Paolino Canovi, parroco di Gazzano, arrestato la vigilia di Natale, portato ai Servi e torturato; don Mario Prandi parroco a Fontanaluccia; don Vasco Casotti a Febbio; don Venerio Fontana, arciprete di Minozzo; don Battista Pigozzi che cadrà il 20 marzo sull’aia di Cervarolo con 23 dei suoi parrocchiani; don Enzo Bonibaldoni, parroco di Quara, riconosciuto “Giusto fra le nazioni”, don Giuseppe Iemmi di Felina. Don Pasquino sa che i fascisti lo cercano e scrive al Vescovo una lettera di piena accettazione di quanto immaginava sarebbe accaduto:

“Eccellenza Rev.ma
Le scrivo in fretta: debbo allontanarmi (…). Sono perfettamente tranquillo. Non chiedo alla Eccellenza Vostra che la paterna benedizione. Ho l’impressione che stiamo tornando ai tempi delle Catacombe. Ad ogni modo “fiat voluntas Dei”. Mi benedica. Dev.mo ed umilissimo servo”

Quindi l’arresto, le percosse, gli sputi e, infine, le ultime ore, che trascorre pregando, consolando, benedicendo, perdonando e chiedendo perdono, “rendendo altissima testimonianza di fede”, martire della Resistenza.
Ecco alcune significative parole della motivazione della Medaglia d’oro al Valor militare del 1947, consegnata a mamma Orsolina che saprà, anche lei, perdonare i due sedicenni che facevano parte del plotone d’esecuzione:

“… Affrontò il piombo nemico con la stessa purezza dei martiri e con la fierezza dei forti …”.

Fiorella Ferrarini 

Coordinatrice del Consiglio Nazionale Istituto Alcide Cervi

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