Cari amici (di Albertina Soliani)

Parma, 23 gennaio 2018

Cari Amici,

l’anno appena iniziato è tutto davanti a noi.

Sarà anche come noi vorremo che sia. Molte cose ci verranno incontro, altre saranno determinate da noi. Da quello che noi faremo, ma soprattutto da come noi saremo. Da quello che vorremo essere, qualunque cosa accada. È quello che noi siamo a cambiare la storia. E quello che siamo insieme la cambia ancora di più.

Questa è la politica. La muove lo spirito.

Aung San Suu Kyi cambia la storia per quello che è, più ancora che per quello che fa. Se l’Occidente avesse questo sguardo, se guardasse a quello che è, alla sua vita, a nessuno verrebbe in mente di mettere in dubbio la sua integrità. Ma quando gli interessi geopolitici ed economici occupano la scena, tutto è possibile. Perfino la saldatura con le convenienze del potere militare interno. E i media conducono il gioco, in questo caso in nome dei diritti umani. Vedere, capire oltre le apparenze. Essere cittadini del mondo vuol dire non essere spettatori di spettacoli allestiti da altri. Bisogna sforzarsi di capire dove e come gira il mondo.

Bisogna sempre farsi delle domande. A cominciare da quella classica: a chi giova? Aung San Suu Kyi vede tutto, comprende, con lucidità e serenità. E serenamente continua la sua missione. Come fa? La sua vita parla da sola. Il popolo è con lei, sa cosa è in gioco. Ci chiedevano se sta bene di salute, è la loro unica speranza. E quindi la loro prima preoccupazione.

Il nostro terzo viaggio annuale di amicizia, tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, ci ha portato da lei a Naypyidaw il 2 gennaio. Eravamo 21. Così abbiamo iniziato questo anno. Due ore e mezza insieme, nel soggiorno della sua residenza. Davvero un’amicizia molto grande. E’ venuta sera, e mentre guardavo il buio che entrava dai finestrini in alto mi è venuto in mente quel verso di Callimaco in ricordo dell’amico: “Penso a quanti soli insieme dialogando abbiamo messo a dormire”. Così abbiamo fatto noi, quella sera. Seduti a cerchio, vicini, con il the e il caffè e la torta preparata da Ohmar, che sta lottando con la malattia. Ci ha chiesto del nostro viaggio, le ho detto della Birmania simile all’Italia, dei birmani che all’alba sono già sulle strade, lei dice che le persone hanno in sé cose universali. Siamo raccolti, compresi del momento, ci sollecita a dire.

Marco chiede del ruolo delle religioni, di dialogo o di conflitto. Lei parla a lungo dell’atteggiamento personale, non dobbiamo fare nostri i sentimenti negativi degli altri. Penso alle aggressioni verbali nei suoi confronti mentre lei resta in silenzio. Ricorda le tre negatività del buddismo: l’egoismo, la malevolenza, l’ignoranza. Racconta della conversione al cristianesimo del nonno, della disperazione e poi dell’accettazione della moglie e di come la cosa è stata vissuta in famiglia.

Maria Augusta, di religione Baha’i come Virginia, parla di Religions for peace. Suu Kyi ricorda la preghiera in casa sua a Rangoon alcuni giorni prima dei rappresentanti delle diverse religioni nell’anniversario della morte di sua madre.

Beppe le chiede le sue priorità politiche. La riconciliazione e la pace, la situazione nel Rakhine, la democratizzazione del Paese. Sul Rakhine spiega il piano del governo, a partire dal rientro dei mussulmani dal Bangladesh, verso la fine di gennaio. Parla dello stato di diritto, che esige la verifica dei fatti e dei reati.

Dell’ONU e delle sue organizzazioni, spesso portano aiuti ma non aiutano le persone e i Paesi a costruire lo sviluppo.

Una lunga e profonda conversazione. Le parole escono dalla vita interiore, la vita e la politica sono la stessa cosa, la democrazia è etica e responsabilità. Nessuna accusa, soltanto impegno e responsabilità.

Le chiediamo della visita del Papa. E’ stata molto contenta, dice che ha portato calore. Molti birmani erano per strada ad accoglierlo, non solo cattolici. Tra loro anche noi. Alla fine i nostri doni, ciascuno con un significato. Parlavano dell’Italia e di Parma, e degli studenti di Verdellino. Elisabetta, amica di Giuseppe, le ha consegnato la spongata di Berceto, a nome della sua famiglia. “Ci manca tanto…”, ha detto Aung San Suu Kyi.

Alla fine, abbiamo cantato per lei “O Signore dal tetto natio”, diretti da Gabriella. Che coraggio! Ma il legame con Verdi è per sempre. L’avevamo provato lungo il viaggio, in pullman e negli hotels, in aeroporto. Anche il canto ci ha unito. Sapevamo che cosa significava per lei e per noi. “Ma ci sono italiani che non cantano?”, ha detto alla fine.

In piedi, accanto a lei, le ho recitato, laicamente, la grande preghiera di benedizione della Bibbia (Numeri,6, 24-26) per il nuovo anno. A metà mi ha accompagnato anche lei in inglese, la conosce. Erano i giorni dell’anniversario dell’Indipendenza della Birmania, il settantesimo. E il nostro dell’entrata in vigore della Costituzione. Giorni speciali.

L’ultimo dell’anno eravamo al lago Inle. Con alcuni giovani, la chitarra, i loro canti intorno al fuoco. A mezzanotte hanno mandato in cielo due rudimentali mongolfiere, sono diventate un puntino rosso tra le stelle.

Il viaggio ha continuato la nostra storia, con una intensità crescente. Ieri per la liberazione e la scelta elettorale della democrazia con Aung San Suu Kyi e la Lega Nazionale per la Democrazia, oggi per l’avvio del cammino democratico con il governo da lei guidato. Con i militari ancora con un ruolo politico, e di potere. La nostra amicizia vuol dire condividere con loro la loro condizione, lavorare con loro per cambiarla. Oggi come ieri. Abbiamo visto la Birmania, la sua gente, la sua natura, la sua storia, la sua cultura. Le sue sofferenze, la sua povertà. E i progressi avviati, Rangoon con le strade pulite, le centinaia di autobus nuovi con l’aria condizionata, le nuove costruzioni accanto a quelle fatiscenti. Abbiamo incontrato la Scuola di musica Gitameit, desiderosa di entrare in contatto con il nostro Conservatorio, ci hanno suonato il pianoforte alla maniera birmana, e cantato per noi i canti delle etnie. Siamo tornati al Monastero che conosciamo, abbiamo visto i lavori di sistemazione che lo rendono accogliente per centinaia di bambini, per loro è l’unica scuola.

Ormai in Birmania abbiamo molti amici. Durante il viaggio abbiamo incontrato anche Paolo Colonna, un manager milanese che fa volontariato, e anche padre Livio, un missionario del Pime che opera nel carcere minorile di Rangoon e in giro per la Birmania con i disabili, i malati di HIV, i contadini. Abbiamo cenato insieme nella Casa della Memoria, il luogo dove il generale Aung San durante la guerra aveva il suo quartier generale.

Abbiamo condiviso, con loro e tra noi, la bella e difficile fase che la Birmania sta vivendo, e Martin, la nostra guida birmana, ci ha raccontato come vive e che cosa spera. Marco, del nostro gruppo, è attivista di Amnesty e ci ha aiutato ad approfondire. Matteo D’Alonzo, il numero due della nostra Ambasciata, così ben inserito nella realtà birmana, ci ha spiegato ciò che si vede lì. Un punto di vista diverso da quello che si dice in occidente.

Un viaggio che, come sempre, ci ha profondamente coinvolto.

Condividere, sostenere, conoscere, collaborare. Questa la strada perché la Birmania possa continuare il suo cammino, senza brusche interruzioni. Senza violenza, con responsabilità, con fiducia. l’Italia è su questa linea.

La lunga cena nella casa del Card. Charles Bo ci ha confermato in questo nostro impegno. Ci ha detto che il Papa ha dato a loro dei compiti: lavorare per la pace, per la democrazia, con i giovani. Una grande semina in Asia. Ci ha fatto vedere le due stanze dell’Arcivescovado abitate dal Papa, credo che rimarranno così per sempre. Papa Francesco ha cambiato la loro storia, perché è stato un incontro spirituale che ha coinvolto tutta la loro vita. Con rispetto.

Posso dirvi, per quanto ho imparato fin qui, che solo la vita può governare la politica, e che solo lo spirito costruisce la vita. Dunque, lo spirito costruisce la politica. Il mondo sarà migliore se lavoreremo sui valori universali, semplicemente con noi stessi, con la nostra vita. Gli uni con gli altri. Consapevoli che nella complessità delle cose solo lo sguardo libero da sé può capire e sciogliere la complessità.

Domenica scorsa sono stata a Trento con i fratelli di Giuseppe all’Assemblea Annuale della Federazione delle Scuole Materne della Provincia. Una grande realtà dell’educazione, dell’autonomia, della creatività, del valore istituzionale. Una Italia forte. Lì Giuseppe ha lavorato per venticinque anni, formando insegnanti, genitori, amministratori, progettando scuole e didattica. Una grande semina, che continua.

Con la stessa fiducia guardo oggi all’Italia e all’Europa. Consapevole dei rischi e delle difficoltà, delle nostre grandi debolezze, so che qui è la nostra responsabilità, a partire dalle prossime settimane. Il mondo che sta costruendo il futuro ha bisogno dell’Europa e dell’Italia, non distanti ma vicine, aperte, coese. Determinate a dare nuova vitalità alla democrazia, e uguaglianza e giustizia e pace alla società europea e al mondo. Il nostro voto determinerà queste cose. È tempo di seminare, di costruire.

Come in Birmania.

Ogni mese, al plenilunio, le monache del Monastero benedettino di Santa Cecilia in Trastevere, pregano per la pace in Birmania, con una dimensione interreligiosa. Anche le Clarisse di Lagrimone pregano per Aung San Suu Kyi e per la Birmania.

Si lavora sull’essenziale.

L’Istituto Cervi, in questo tempo di trasformazioni, presidia. La memoria che custodisce è una domanda permanente: che cosa ne avete fatto, di ciò che vi abbiamo affidato con la nostra vita? Credo che il 2018 sarà anche per il Cervi un anno di svolta. Di rinnovamento. Di fronte ai rischi di ritorno al passato, è tempo di Resistenza.

A Tiziana, che le consegnava il simbolo del suo Comune, Collegno, medaglia d’argento al valor

civile, Aung San Suu Kyi ha detto: È importante la Resistenza. I migliori vengono di lì.

Siamo solo all’inizio dell’anno, e della storia futura.

Coraggio!

Con grande affetto, mingalabar.

Albertina


Parma, 9 gennaio 2018

Cari Amici,

la vigilia di Natale su la Gazzetta dell’Emilia il giornalista parmigiano Lamberto Colla

ha scritto un articolo sul Myanmar e su Aung San Suu Kyi e su di me che vi trasmetto. Un esempio di buona informazione.

Grazie per l’attenzione e molti cari saluti.

Albertina

LINK diretto:

http://www.gazzettadellemilia.it/politica/item/18462-cosa-succede-in-birmania.html


Bologna, 8 gennaio 2018

Cari Amici,

vi trasmetto l’articolo di Romano Prodi apparso sul Messaggero domenica 7 gennaio. 

Ieri mi ha detto: E’ finita la superiorità etica della democrazia. Una delle frasi più inquietanti che ho ascoltato negli ultimi anni. Lo sguardo sul mondo di oggi non può che confermare questa constatazione. Vi sono tutte le ragioni per reagire.

Nella Birmania di Aung San Suu Kyi sono all’inizio della Democrazia. Ci credono. L’hanno pagata con la vita, appena ieri. Sono tra i pochi? Noi camminiamo insieme con loro.

Grazie dell’attenzione e carissimi saluti.

Albertina

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 7 gennaio 2018

Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento.

La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo ed il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.

La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.

La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.

Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.

Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.

Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei paesi in via di sviluppo.

Un compito facilitato dalle fratture fra i paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.

A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.

Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.

Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.

Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.

Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un paese ma per renderne possibile il governo.

Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e  invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.


Foto dell’incontro della delegazione italiana dell’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania con Aung San Suu Kyi 

Naypyidaw, 2 gennaio 2018


Parma, 13 dicembre 2017

Cari Amici,

con la Birmania i giorni dell’amicizia sono i giorni della vita e della storia.

Il mio ultimo viaggio dal 18 al 30 novembre, con Virginia Angela e Paola prima, con Alberto, Leo, Clelia e Hisham poi, e Caterina che adesso vive là per un anno, è stato così intenso che le parole faticano a raccontare.

Abbiamo condiviso il clima di preoccupazione e di speranza che oggi vive il Myanmar, di fronte a sé e di fronte al mondo. L’abbiamo sentito nei nostri incontri, con i nostri amici, da Thura Thun ai medici di G. P. Society, al Rettore di Medicina 1 di Yangon, a Wha Wha del Centro delle Cure Palliative, a Ko Tar della Scuola Lumbini, agli amici di Gitamait, la scuola di musica, al Chief Minister di Yangon U Phyo Min Thein e alla Ministra Nilar Kway, all’Ambasciatore Aliberti e sua moglie Francesca, al n°2 D’Alonzo con la moglie Ulyana, a Zwe Nanda e sua moglie Thinn Thinn Hlaing del bar Garden Babilon nella zona coloniale.

Prevale la fiducia mentre si discute del presente del Myanmar tra Cina, Islam, e un Occidente critico guidato spesso dai propri interessi. La sofferenza dei mussulmani nel Rakhine e la strategicità della regione, il nazionalismo buddista, la presenza dei militari: componenti di una fase storica segnata dalla transizione verso la democrazia, appena iniziata. Su tutti, e su tutto, la persona di Aung San Suu Kyi, che tiene sulle sue spalle la Birmania. Lavora moltissimo, prima di tutto per la pace e la riconciliazione. Interviene nel Rakhine, con un piano di rientro dei mussulmani dal Bangladesh, l’assestamento di tutte le popolazioni nel rispetto dei diritti umani, lo sviluppo economico e sociale.

Mentre noi tornavamo a casa, Aung San Suu Kyi volava in Cina. Il vicino di casa indispensabile, checché ne dica l’occidente. Il giorno dopo ho sentito Romano Prodi. Era a Pechino, aveva salutato Aung San Suu Kyi mentre lei, mi ha detto, era avvolta nel processo di beatificazione da parte dei cinesi… La storia cammina.

Come sapete ho incontrato Aung San Suu Kyi a Naypyidaw a casa sua il 23 novembre, qualche giorno prima dell’arrivo del Papa.

Poi li ho visti insieme a Naypyidaw, dalla televisione a Yangon. Due persone che hanno cura dell’umanità e del mondo, come nessun’ altra. Passateli in rassegna, i leaders che oggi sono sulla faccia della terra.

Allego a questa lettera i due discorsi tenuti a Naypyidaw.

[Scarica  -> Discorso di Papa Francesco ad Aung San Suu Kyi e alle autorità  e -> Discorso Aung San Suu Kyi a Papa Francesco]

Ma più delle parole parlavano i gesti, e il loro comportamento. Emozionati, si vedeva, con una reciproca riverenza. Il Papa con un’espressione profondamente seria e accogliente, lei profondamente concentrata e contenta.

Mentre l’una parlava, l’altro era rivolto a lei con grande partecipazione. E così lei quando parlava il Papa.

Le parole in italiano di Aung San Suu Kyi, e non solo, ci hanno unito intensamente.

E’ stato l’incontro di due anime, difficile da raccontare per la stampa internazionale.

Anche nella Messa, nello stadio di Yangon e in Cattedrale, il Papa aveva la stessa espressione molto intensa e avvolgente. E così il popolo, composto e in silenzio. Consapevole della grandezza del momento.

Una svolta per la Birmania. 500 anni di vita della sua Chiesa, piccolo gregge, con i suoi martiri, a servizio di tutto un popolo.

La spiritualità in Birmania è come l’aria che si respira, dentro le grandi tragedie della storia. Mistero inspiegabile.

Alla Messa nel campo di Yangon, al Kyaikkasan grounds, con 150.000 persone, accanto a me c’era Nita May, già a suo tempo incarcerata, e alla mia destra il nipote del dittatore Ne Win. L’abbraccio di pace a lei, e la stretta di mano a lui, hanno unito la Birmania un tempo divisa. La visita del Papa è stata un balsamo per le ferite, le sue parole di perdono e riconciliazione hanno dato gioia e speranza a tutti. Charles Bo era felice.

Ho visto i giornalisti al seguito del Papa, e il brifing all’hotel Shangri – La. Cose impensabili solo poco tempo fa. Incerti, i giornalisti. Per quasi tutti era la prima volta in Myanmar, alla scoperta di un mondo nuovo, oltre i loro schemi consolidati.

Al ritorno a Roma, nell’udienza del mercoledì, Papa Francesco ha detto: “Ho visto il futuro dell’Asia”.

Sulla strada di Yangon, al passaggio dell’auto del Papa al suo arrivo dall’aeroporto, c’eravamo anche noi, tra la folla. Ho pensato a Giuseppe, a tutta la nostra storia. Quanto cammino. Tutto si muove, ben al di là delle nostre previsioni. Le centinaia di autobus nuovi, gialli, con l’aria condizionata, che corrono sulle strade della capitale sono un segno del cambiamento. La gente discute di come si timbra il biglietto, dei controllori spariti, il prezzo è molto basso. Primi assaggi di una democrazia che rende enormi servizi.

Nella sua residenza U Phyo Min Thein ci ha fatto vedere, la sera sotto la luna, la grande serra, e l’orto e gli alberi da frutta che sta curando dopo aver estirpato cespugli e erbacce, lì dal tempo di Ne Win. Dopo li aprirà al popolo, come i giardini del Quirinale, perché quella è la casa del popolo.

Ho trovato a Yangon la Chiesa armena, la cercavo da tempo. Era in un quartiere che ha anche templi buddisti, indù, moschee. Sapevo che era stata chiusa dal Catholicos qualche tempo fa dopo la morte dell’ultimo armeno di Birmania. La Chiesa era aperta, c’era una celebrazione con alcuni fedeli e un sacerdote. Ero emozionata, sul registro in fondo alla chiesa ho scritto un pensiero per Gabriella Uluhogian. Mi è venuto in mente, che, qualche mese fa, avevo visto una foto di Aung San Suu Kyi con un sacerdote armeno. Tutti partecipano al dialogo in Birmania.

Ho visto la fabbrica dismessa di pannelli solari, a Yangon e la grande dignità dei suoi dirigenti e operai. La tengono pulita come un museo, si vergognano del sussidio statale. Il sistema industriale è fermo, eredità dei generali.

L’ultima sera, prima della partenza, abbiamo cenato insieme, gli amici italiani e gli amici birmani, con Phyu Phyu Thin, Koyasar e tutti gli altri. C’era una chitarra, alla fine abbiamo cantato Volare…Così l’Associazione “Giuseppe Malpeli” è un luogo di amicizia a Rangoon.

Torneremo là a dicembre, con il viaggio annuale di amicizia.

Per continuare a condividere, e a capire da lì il nostro mondo, l’occidente e noi stessi.

Intanto, qui, si accendono fuochi: a Gerusalemme, città spirituale, ancora contesa e divisa; nell’Europa impaurita, dove tornano fantasmi nazifascisti; nell’Italia così fragile, nella sua dimensione politica come nel suo tessuto sociale.

Un’unica responsabilità ci investe: per la democrazia, per la pace, per un futuro di speranza. Qui da noi, in Birmania e in tutto il mondo.

Viviamo i giorni dell’attesa del Natale, e del nuovo anno, il settantesimo dell’indipendenza per la Birmania, il settantesimo della Costituzione dell’Italia.

Vi auguro un tempo di gioia e di impegno.

Con le parole di Francesco a Naypyidaw:

“Con i migliori auguri per il vostro servizio per il bene comune, invoco su tutti le benedizioni divine di saggezza, forza e pace”.

E di Aung San Suu Kyi:

“Il cammino è lungo, ma lo faremo con fiducia, confidando nella forza della pace, dell’amore e della gioia. Santità, continuiamo a camminare insieme con fiducia”.

State bene.

Albertina


Yangon, 26 November 2017

Dichiarazione della Sen. Albertina Soliani

Per la prima volta in 100 anni di storia della Birmania, Aung San Suu Kyi sta operando l’inclusione della popolazione musulmana nel Rakhine State.
La regione avamposto del buddismo, sul confine mussulmano del Bangladesh, da decenni segnata da tensioni, è oggi la nuova frontiera dove si vive in modo più acuto la sfida della convivenza pacifica. Aung San Suu Kyi vuole vincerla. Con tutto il suo popolo. Non si pronuncia il nome con il quale i mussulmani del Rakhine, identificano se stessi, perché esso, con le sue implicazioni, può accendere i fuochi. Solo la politica può far vincere il diritto, l’uguaglianza, e la pace. Sul terreno economico e sociale, prima ancora che religioso. Questo sta facendo Aung San Suu Kyi con il suo governo. Nelle condizioni del Myanmar, dove la democrazia è la speranza di un intero popolo, all’inizio del nuovo cammino.


Naypyidaw, 23 novembre 2017

Cari Amici,
oggi, a Naypyidaw, ho incontrato Aung San Suu Kyi. Un’amicizia che incontra non solo la vita ma la storia. Vissuta come responsabilità, ovunque ti trovi. Il mondo è uno, il nostro.
Condividere è l’amicizia. In questo caso, mentre il mondo intero guarda al Myanmar, queste righe sono semplicemente la mia testimonianza.
Vicine, nella lunga conversazione mediata da Virginia, ho incontrato la sua giornata di lavoro. Appena arrivata dall’Ufficio, dopo le giornate impegnative dell’incontro di ASEM, che unisce i Ministri degli Esteri dell’Asia e dell’Unione Europea, tenutosi a Naypyidaw e guidato da Aung San Suu Kyi e Federica Mogherini. Con esiti positivi. Eravamo sedute in casa ma dentro i problemi del Myanmar, del Rakhine, del mondo. Sono nelle sue mani, e li governa con grande intelligenza, con consapevolezza, con limpidità.
Scopro sempre di più,qui, il gioco oscuro dei media. Ieri Associaded Press ha stravolto, riferendo, un pensiero del discorso ad ASEM di Aung San Suu Kyi. E le testate mondiali sono andate al seguito.

Volutamente? Certo è che i problemi del mondo di oggi, compresi quelli del Rakhine, sono guidati dai grandi interessi, economici e geopolitici. I media trasferiscono, e le opinioni  pubbliche sono i terminali di questo meccanismo. Dobbiamo saperlo.
Aung San Suu Kyi è la guida del Myanmar, che non potrebbe averne una migliore.
Sta affrontando i problemi del Rakhine con grande impegno del governo, della società civile, degli aiuti internazionali. La situazione può cambiare, sta già cambiando. Tutta la Birmania può cambiare, se se ne rispetta il cammino appena iniziato.
Si aspetta il Papa. Sarà un incontro coinvolgente nel segno dell’amore e della pace.
Scenderanno da tutta la Birmania,i cattolici, l’ 1,5 per cento. E non solo loro. Qui le religioni sono nella vita, possono essere in dialogo o in conflitto. Saremo anche noi, da Parma e dall’Italia, al grande ex ippodromo a Yangon per la messa di Papa Francesco alle 8 del mattino del 29 novembre. Dopo ci sarebbe molto caldo.
Stasera sono stata nella dimora spartana della deputata Phyu Phyu Thin con altre sue colleghe.
Insieme a parlare del futuro loro e del mondo. Qui si aspettano molto dall’Italia e dall’Europa.
Io ne vedo con dolore tutta la debolezza.
Cari Amici,tocca a noi. Vorrei che avessimo la forza e il coraggio di Aung San Suu Kyi.
Affronta il suo compito con tutta se stessa, il popolo sa che su di lei può contare. E il mondo capirebbe come vanno le cose, se solo volesse vedere.
Con la stessa intensità abbiamo parlato di noi, di quello che l’Associazione sta vivendo con loro.
Ci rivedremo a dicembre, per il viaggio annuale di amicizia con gli auguri per l’anno nuovo.
Cari Amici, incontrare Aung San Suu Kyi è un grande dono della vita. E’ la Birmania. E una straordinaria risorsa per il mondo intero.
Poche e povere parole,per darvi testimonianza di questi giorni, e di ciò che vivo qui. Le parole  non possono più dire molto. Vorrei che in un qualche modo poteste condividere.
Vale l’intensità dei rapporti, vi assicuro fortissimi. E’ l’anima che qui si incontra.
Mingalaba.

Albertina


Parma, 31 ottobre 2017

Cari Amici,
sono tornata una settimana fa dalla Birmania, tornerò là il 17 novembre. Tutto è così naturale, finché la vita mi sostiene. L’amicizia è condivisione, specialmente nei momenti difficili. E oggi la Birmania ha tutto davanti a sé, lo sviluppo, la democrazia, la pace.
Aung San Suu Kyi mi aspettava. Mi ha parlato a lungo, mi aveva anche chiesto di organizzazioni non governative italiane disposte ad aiutare le popolazioni del Rakhine State, oggi il luogo più caldo, al confine con il Bangladesh: i rohingya, gli indù, i buddisti. Poveri e da sempre in conflitto. Va sulla fiducia.
Era con me Virginia, interprete non solo delle parole ma dell’anima del suo Paese. Portavo con me la pena della voce dell’Occidente, dura con lei. Volevo capire, non mi era mai bastato quello che i media dicevano, sotto c’era dell’altro.
Ho sperimentato che il mondo e i problemi si vedono in modo diverso a seconda del luogo in cui sei. L’orizzonte è sempre più largo. Là ho capito, su quel dramma, che vi sono, intrecciate, regie diverse. La regia dei militari, tesa a indebolire lei e il suo governo, a legittimarli di nuovo come i salvatori. La regia dei terroristi, del gruppo Arsa, impegnati a tenere aperto il conflitto, forse con l’obiettivo di costituire là uno stato islamico, usando i rohingya contro l’esercito e spingendoli in Bangladesh sotto la minaccia delle armi. Uccidono, incendiano, è stata trovata una fossa comune di un centinaio di indù. C’è la regia dei Paesi occidentali, certo solidali con i mussulmani vittime dell’ondata di violenze, senza patria da secoli, ma anche interessati, con una campagna senza sosta, a delegittimare Aung San Suu Kyi, a colpirne l’immagine sul punto più  esposto: i diritti umani. Il fatto è che si aspettavano da lei, una volta andata al potere, che aprisse il Paese ai loro interessi, che fosse un baluardo contro la Cina. Questo non è  accaduto, non poteva accadere. Mi ha detto Thant Zin: lei non è stupida. E allora si può  togliere, con un gesto simbolico e plateale, il suo ritratto da Oxford, demolirne l’immagine. Davvero il denaro, il potere, le armi pretendono di governare il mondo, passando sopra in un baleno la verità delle cose e delle persone. Con i media al loro servizio, perfino con le notizie false.
E Aung San Suu Kyi? Sa tutto, la debolezza politica dell’Occidente, con il ruolo dell’informazione e il condizionamento del consenso, gli interessi e le convenienze, l’incognita del terrorismo. Temevo fosse provata. Mi ha accolto con queste parole, come vi ho detto a caldo: Albertina, sei pronta a correre?
Sta accelerando. Il tempo è breve, i rischi sempre in agguato. Con forza e fiducia, con grande vicinanza ci ha raccontato la sua strategia. Percorre il sentiero stretto che le è  consentito, sostenuta dal suo popolo. E dai suoi vicini, la Cina, il Giappone, l’India, la Corea del Sud, l’Australia. Dopo il Rapporto di Kofi Annan, che aveva scelto subito come guida per il Rakhine, ha dato vita a Union Enterprise for Humanitarian assistance, Resettlement and Development in Rakine (Uehrd). Da lei presieduta.
Per realizzare tre obiettivi: il ritorno dei rohingya, l’aiuto umanitario e l’assestamento della popolazione, lo sviluppo. Se entrano nel territorio i civili, le istituzioni, gli aiuti internazionali forse si restringe il campo del conflitto. Di questo ho parlato con i miei interlocutori, e della responsabilità di fronte a sé e al mondo che oggi investe per la prima volta nella sua storia il Myanmar. Il giorno dopo il nostro incontro Aung San Suu Kyi ha visto gli industriali del suo Paese, ha detto che toccava a tutti nel Myanmar contribuire per  aiutare il Rakhine. La risposta è stata molto forte, hanno fiducia in lei.
Ho incontrato il Chief Minister U Phyo Min Thein e la Ministra Nilar Kyaw, appena rientrata dal Rakhine. Nella grande casa che è stata la residenza di Ne Win, il primo dittatore. Ho pensato a Giuseppe. Avevano desiderio di parlare, di ascoltare. Il Myanmar, appena venuto al mondo dopo il dominio coloniale e il regime dittatoriale, si è trovato nella bufera. Mentre la democrazia è solo un germoglio e tutto è possibile.
Eppure lavorano prendendosi cura delle cose, pensano di potercela fare con la guida di Aung San Suu Kyi. Che vede più di tutti le sfide e i rischi, eppure apre la strada a tutti.
È l’unità del Paese, compresi i militari. Me lo ha detto Phyu Phyu Thin, una sera nella sua casupola di parlamentare a Naypyidaw, una stanza divisa da un armadio, c’erano sua mamma, sua sorella, una collega.

Quando siamo arrivati in Birmania era stato arrestato il figlio di un Ministro del governo precedente, trafficava in armi. Mentre eravamo là c’è stato un grande incendio in un grande albergo storico, c’eravamo fermate a prendere un caffè qualche giorno prima. Forse l’incendio copriva traffici di armi. Tutto il mondo è paese, ma là è un paese speciale. La corruzione, i conflitti, la violenza convivono con la non violenza e il sogno di pace.
Ho incontrato il Ministro dell’Industria U Khin Maung Cho e ho capito meglio l’interesse per il vetro. La Birmania di vetro, non di plastica, è il Paese che vogliono costruire, il sogno di bellezza di Aung San Suu Kyi. Forse l’ha pensato a lungo, dice Virginia, da quando era agli arresti. Ho visto il piano dei nuovi grattacieli di vetro di  Yangon. Ho immaginato la lastra a colori di vetro soffiato di Michele Canzoneri, forse sarebbe l’unica in Asia. Il Ministro ama il design italiano, guarda all’Italia nonostante gli investimenti dei vicini asiatici. Spero che possa venire in Italia. Le loro industrie sono ferme da anni.
Ho incontrato i docenti della Facoltà di Medicina in rapporto con l’Università di Parma, e i medici di base della G.P. Society, e la dottoressa Wha Wha del Centro delle cure palliative, appena all’inizio. E’ invitata a Parma a marzo.
Ho parlato a lungo con Thant Zin, ho condiviso i suoi pensieri politici. Andrà presto a Sittwe, nel Rakhine, per fare un laboratorio di dialogo tra le religioni e le culture con gli insegnanti.
A Rangoon accade anche che puoi incontrare per caso al ristorante Ko Tar, in una città  di quattro milioni di persone. Oppure, all’Hotel Max di Naypyidaw, a colazione, ti può  avvicinare una signora australiana, lì per insegnare inglese e comportamenti nuovi alle forze di polizia, e ti chiede: lei è qui per il Monaco? (un famoso monaco buddista è lì per incontrare gli adepti). Rispondo no, per Aung San Suu Kyi. Incredula e raggiante. Aung San Suu Kyi è il suo Paese, la senti ovunque. Incontro lì un giovane medico, Than Zoe, di G.P. Society, vuole aiutare da cittadino lei e il suo Paese, sta elaborando progetti di sanità.
Aung San Suu Kyi è una forza spirituale, checché ne dicano i media occidentali. Che peraltro di spirito si intendono poco. E così questa parte del mondo, la nostra, rischia di perdere l’anima e il resto. Una grande pena.
Attendono con speranza la visita del Papa a fine novembre. Incontrerà la spiritualità di Aung San Suu Kyi, loro si intendono. Così affrontano le sofferenze del mondo. Dopo credo che niente sarà  come prima.
Una sera, a Rangoon, sulla riva del lago Inja, ci siamo uniti alla preghiera interreligiosa di centinaia di persone: buddisti, mussulmani, indù, cristiani. La spiritualità in Asia sarà una componente potente del mondo di domani. Insieme alla loro popolazione giovane, e all’economia della Cina.
Con la famiglia di Virginia e altri amici, e Thura, siamo stati alla Pagoda Swedagon, abbiamo acceso centinaia di luci. Un altro modo per dire la speranza. Thura a terra inchinato davanti al Budda, nella sera. Il suo piccolo Sithu Giuseppe cresce molto bene.
Tornerò là presto, a metà novembre e fino alla fine del mese. Compresa la visita del Papa. Per condividere con loro.
Il 18 novembre ALMA di Colorno porterà là la Settimana della Cucina Italiana. Proprio in questi giorni è uscito il libro che ne racconta il sogno avverato di Albino Ivardi Ganapini.
Grazie, Albino, di avere portato Parma e l’Italia nel mondo con ALMA. Anche in Birmania, come sai, formando Ye Ko, oggi capo cuoco in un ristorante sul golfo del Bengala nel sud del Rakhine. Verranno anche Leo Sarli e Clelia D’Apice per partecipare al Congresso di G.P.Society e costruire rapporti di collaborazione. Verrà Alberto con qualche imprenditore interessato a operare in Myanmar. Verranno amici di Bergamo, anche per incontrare là il Papa. E a novembre partirà Caterina, per un anno di ricerca su Hiv e disabilità per la Bicocca di Milano.
A febbraio Sabrina, che di professione fa consulenza e certificazione dei sistemi di gestione nel settore agro-alimentare, per tre mesi andrà in Birmania dai contadini per consigliarli sulla produzione di qualità del sesamo.
Ecco l’amicizia con la Birmania. Quella che Giuseppe ha cominciato con me, quando tutto era buio e chiuso, e ha proseguito con noi in questi anni straordinari. Incontrando le persone, il tesoro della Birmania, dell’Italia, del mondo.
Vi confermo che l’Italia c’è, con la sua politica, con la sua valorosa e apprezzata Ambasciata, con la sua Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo tenacemente impegnata. La cultura, il cinema italiano, il Made in Italy sono presenti a Rangoon grazie alle iniziative dell’Ambasciata. Anche nelle sedi internazionali l’Italia si muove con saggezza.
Può sembrare strana questa parte della mia vita. Eppure accolgo quello che mi viene incontro. Ciò che sto facendo, e mi sta coinvolgendo, dal Cervi alla Birmania, non nasce ora. Mi porta al cuore della resistenza morale per la democrazia e per il cambiamento del mondo che mi ha segnato la vita fin dall’inizio. Non importa dove. Importa invece che siamo insieme, in tanti.
Con Aung San Suu Kyi, per sostenerne lo sforzo, oggi come ieri. Oggi mi appare perfino, se si può dire, più grande di ieri, così coerente e limpida nell’impegno di ogni giorno dentro la storia. Il lavoro con le scuole, a Parma come a Treviglio, accompagna loro e noi nel cammino per un mondo migliore. 

Poi torneremo là a dicembre con il viaggio di amicizia. E chissà, qualcuno prima o poi arriverà anche nel Rakhine. E’ la stessa terra, è la medesima umanità.
Vi darò notizie. Ma ormai il fiume della vita e della storia le parole non riescono più a contenerlo.
Capisco il silenzio di Aung San Suu Kyi. Talvolta non vi sono parole per dire pesi così grandi, o contraddizioni così dolorose, o di fronte a interessi di potere coperti dall’ipocrisia. Capisco la sua accelerazione, sa che il tempo è questo. Il tempo per lei è sempre stato “ora”. So che lavora tantissimo. E medita.
Resiste, come il giacinto d’acqua, beda, portando il fiore. Uscendo dalla sua casa nella sera, c’era nell’ingresso un grande vaso con foglie di beda, una con un fiore. Guardandolo mi ha detto: è fiorita per te. “Internazionale” di questa settimana così intitolava la copertina: “La fine della favola birmana”. La Birmania è sempre stata un dramma, dietro il fascino della sua bellezza e del  suo spirito. E’ questo che stentiamo a capire, la grande sofferenza di cui oggi è parte anche la tragedia dei rohingya. Ma la favola vive, nel grande coraggio di un popolo, nella volontà di riscatto. E’ questo che incarna Aung San Suu Kyi. Pochi al mondo sono come lei. Diceva Caterina da Siena: “E’ meglio perdere la reputazione che la carità”. In Birmania a vivere ci vuole coraggio, e pazienza, si pagano dei prezzi. Si capisce il valore della vita e della politica. Sono la stessa cosa. Avremmo bisogno qui di questo spirito. Il mio spirito, lì, si sente a casa.

Grazie a tutti voi di essere parte di questa storia.

Albertina


Naypyidaw, 19 ottobre 2017

Aung San Suu Kyi è molto forte, fiduciosa, molto attiva con una grande energia spirituale. Guida con determinazione il suo Paese. Non si lascia intimidire, vede con grande lucidità i movimenti geopolitici, economici e dei media nel mondo.
Prima era una luce immobile nella prigione, oggi si muove spingendo il cambiamento della Birmania e del mondo.
Il suo popolo è consapevole di questo e la sostiene.
Grandi rischi e grandi opportunità: questa è oggi la Birmania di Aung San Suu Kyi. Lei incoraggia tutti a lavorare.
Della sua immagine non le importa niente.
Mi ha accolto dicendo: “Albertina, sei pronta a correre?”

Albertina Soliani

[English Version]

ASSK is very strong, hopeful, very active and carries great spiritual energy. Guides her country with determination, doesn’t accept intimidation, she sees the geopolitical, economical and the media’s movements in the world with great lucidity.

Previously she was a still light in the prison, today she moves to push the change in Myanmar and in the world.

Her people are aware of this and support her. The world has to grow awareness and support her.
Great risks and great opportunities: this is Aung San Suu Kyi’s Myanmar today.
Her image is not important to her.

She welcomed me saying: “ Albertina, are you ready to run?”

Albertina Soliani

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