Intervista ad Anna Dora Dorno > Sotto la grande quercia

Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 16° Festival di Resistenza.

<<Volevano seppellirci ma non sapevano che eravamo semi >>

Intervista ad Anna Dora Dorno
di Raffaella Ilari

La drammatica vicenda dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa scomparsi ad Iguala, in Messico, il 26 settembre del 2014, è al centro di Desaparecidos#43 di Instabili Vaganti, regia Anna Dora Dorno, con Anna Dora Dorno, Nicola Pianzola, Armida Pieretti, primo spettacolo in concorso al Festival Teatrale di Resistenza. Partendo dalla ricerca e dall’esperienza di lavoro in Messico, Uruguay e Argentina e dalle testimonianze e racconti di studenti e artisti coinvolti nella fase messicana del progetto internazionale Megalopolis ideato e diretto dalla compagnia, Desaparecidos#43 ha una drammaturgia originale, bilingue, fatta di parole e di azioni fisiche. Un linguaggio performativo per esprimere, attraverso l’arte, non soltanto una storia ma anche una precisa posizione politica rispetto ai temi trattati. 
Lo spettacolo, che ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International Italia (il gruppo Amnesty di Reggio Emilia sarà presente a Casa Cervi con la petizione “Messico: dove sono i 43 studenti?”), vuole essere un’inno alla libertà, di opinione, di espressione e manifestazione ma vuole anche testimoniare come i mezzi di comunicazione di massa possano servire a sensibilizzare l’opinione pubblica facendo rimbalzare l’informazione a livello internazionale, possano chiedere verità e giustizia.
Fondata nel 2004 da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, la compagnia porta avanti un lavoro di ricerca e sperimentazione caratterizzato da un teatro fisico e contemporaneo e dall’internazionalità dei progetti in cui vengono trattati importanti temi di attualità attraverso forme d’arte universali. Di Desaparecidos#43 parliamo con la regista Anna Dora Dorno, nonché direttrice artistica di Instabili Vaganti.

Come nasce lo spettacolo? E come avete lavorato sulla memoria della vicenda narrata?
Desaparecidos#43 nasce alla fine del 2014 nell’ambito del progetto internazionale Megalopolis in risposta ai tragici eventi accaduti a Iguala, nello stato del Guerrero, in Messico, la notte del 26 settembre dello stesso anno.  Con Megalopolis avevamo già svolto due tappe di ricerca a Città del Messico lavorando prima con gli studenti della UNAM (Università nazionale autonoma del Messico) e poi con gli allievi della ENAT (Escuela Nacional de Arte Teatral). In entrambi i contesti, erano apparsi temi quali: la paura della violenza, delle sparizioni, la difficoltà di affermare la propria personalità in una delle più grandi città del mondo, il desiderio di cambiare le cose.  In particolare con gli studenti della UNAM avevamo presentato una performance site-specific nella piazza del Tlatelolco, che custodisce la memoria del tragico massacro del 1968, quando più di 300 manifestanti sono stati uccisi dai cecchini dell’esercito messicano, e questo episodio, pur facendo parte della memoria del Paese, era ancora vivo e presente in quel luogo. 
Tutti questi temi e i sentimenti che li generavano, sono diventanti un flusso di emozioni dirompenti in noi quando quegli stessi studenti ci hanno comunicato via Facebook nel settembre 2014, quello che stava accadendo in Messico dopo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. 
Abbiamo avuto paura per loro che prendevano parte alle manifestazioni a Città del Messico, perché spesso le stesse terminavano con arresti, repressioni e sparizioni. Abbiamo risposto alle loro richieste di diffondere in Italia e in Europa quello che stavano vivendo in quel momento e lo abbiamo fatto attraverso il nostro modo di fare teatro, ponendo in scena le nostre emozioni, impressioni, utilizzando il nostro linguaggio performativo che cerca di esprimere attraverso l’arte non soltanto una storia ma anche un messaggio e una precisa posizione politica rispetto ai temi trattati. 
Così è nata una prima Acciòn Global, come le chiamano in Messico, una breve azione performativa, che aveva come intento quello di informare sui fatti anche le persone in Italia, primo nucleo dal quale si è sviluppato lo spettacolo Desaparecidos#43. Nei giorni, successivi al 26 settembre 2014, nel web si susseguivano filmati, foto e slogan provenienti da diverse Acciòn global che avvenivano in Messico ed in altre parti del mondo ad opera di artisti di diverse discipline. Abbiamo sentito il bisogno di unirci a quel movimento artistico, con un’azione di protesta verso ciò che era accaduto ed allo stesso tempo di esprimere il nostro amore verso un paese che ci ha sempre accolti in modo splendido. Il progetto è stato poi sviluppato in residenza al Teatro Akropolis di Genova, dove abbiamo avuto l’opportunità di includere nel lavoro un danzatore messicano. Dal quel momento in poi il processo di lavoro è rimasto in gran parte aperto, nonostante la struttura dello spettacolo cominciasse a prendere una forma definita. Abbiamo voluto mantenere una apertura tale da poter invitare artisti differenti ad esprimere il loro punto di vista sui fatti. Allo spettacolo hanno preso parte attori e danzatori italiani e messicani, giunti appositamente in Italia per il progetto, nelle sue differenti fasi. Questa modalità di inclusione ci ha consentito di presentare il lavoro nei luoghi in cui il progetto è nato, in Messico, ma anche in Uruguay.  
Dopo quasi tre anni di ricerca lo spettacolo che presenteremo al Museo Cervi vuole esprimere l’essenziale e allo stesso tempo contenere le voci di chi ha fatto parte di questo processo. In questo senso Desaparecidos#43 custodisce al suo interno una memoria dell’opera stessa che coincide anche con quella della vicenda e dei suoi portavoce, a cominciare dai primi workshop a Città del Messico fino ad arrivare al giorno d’oggi.

Come si traduce, in questo spettacolo e più in generale nel vostro lavoro, il rapporto con il territorio e con la comunità?
Lo spettacolo si è generato in stretto rapporto con la comunità creatasi attorno alla vicenda dei 43 studenti. È nato come reazione artistica ed è diventato un forum aperto in cui poter esprimere un pensiero legato ai fatti accaduti. Lo spettacolo ha rappresentato la punta dell’iceberg attorno alla quale si è creata una base ben più vasta, un progetto in cui hanno lavorato artisti, giornalisti, studenti, attivisti politici, etc. Allo spettacolo abbiamo associato un incontro, per parlare della vicenda alle comunità locali ma anche un workshop, Open Call#43, che prevede una chiamata pubblica per 43 artisti, studenti e interessati al progetto. Tutte queste iniziative attorno ci hanno permesso di entrare in relazione in maniera profonda con il territorio, sia quello messicano che italiano, e di creare anche un breve documentario che racchiude testimonianze e impressioni dal Messico. In generale ognuno dei nostri progetti prevede una fase iniziale di apertura e di indagine che ci consente di raccogliere materiale sul quale lavorare e di universalizzare le vicende narrate per una fruizione degli spettacoli che da locale diventa globale. Non a caso sia Made in Ilva che Desaparecidos#43 sono stati rappresentati in molti luoghi nel mondo. 

Trattate spesso tematiche legate al contemporaneo, si ricordi ad esempio Made in Ilva (II° Premio Giuria Museo Cervi Festival di Resistenza 2013). Da cosa nasce questa urgenza e come l’affrontate?
Nei nostri progetti cerchiamo sempre di farci portavoce di alcune tematiche che permeano la nostra contemporaneità ma che, in primis, ci riguardano direttamente. Siamo convinti che parlando di ciò che proviamo possiamo essere in grado di comunicare con gli altri o quantomeno di stimolare un pensiero, una riflessione in merito ad alcune tematiche. 
Una parte fondamentale del nostro percorso di ricerca e produzione è caratterizzata dalla creazione di progetti che partono da temi generali per sprofondare poi in esperienze individuali, continuando però a dialogare con l’Universale. Questa metodologia ci ha portati alla creazione sia di Desaparecidos#43 che di Made in Ilva
In Made in Ilva, per esempio, il sentimento che volevo esprimere era soprattutto un senso di rabbia e d’impotenza generato da una mancanza di prospettive lavorative che mi aveva costretto ad andare lontano dalla mia città natale, Taranto. Avvertivo in me l’esigenza di parlare di questa condizione che accomunava una generazione di giovani appartenenti a quel territorio e che trovava, come causa maggiore, la presenza di un polo industriale ormai fatiscente che ha condizionato fortemente il destino della città. Nello stesso tempo, come compagnia, stavamo sviluppando un’indagine sul rapporto tra organicità ed inorganicità  dell’attore e del suo agire scenico ed umano in generale. Lo spunto per cominciare a lavorare sul tema della fabbrica è stato casuale: una residenza in Germania in un teatro ricavato all’interno di una ex-fabbrica a Lipsia. Questo enorme spazio, in parte restaurato e ridestinato all’uso teatrale, aveva risvegliato qualcosa nei miei pensieri, attivando sinapsi che mi portavano a pensare ad un’altra fabbrica e ad alimentare la mia rabbia e il mio desiderio di dire quello che provavo e che sentivo. Da questi sentimenti e dal rapporto e contrasto tra il tema universale dell’alienazione e il tema specifico e strettamente personale dell’ILVA, è nato lo spettacolo.

Il teatro può farsi portatore di un messaggio di cambiamento e di speranza? E come?
Nella nostra visione chiaramente sì. L’ultimo testo di Desaparecidos#43 recita appunto: “Così abbiamo creato la nostra Acciòn Global, per unirci al grido di speranza che sta attraversando il Messico, per lottare, lottare insieme perché anche se noi ci siamo ancora tutti, non siamo tutti, ne mancano 43”. 
Chiaramente per noi il teatro possiede una forza particolare. Il fatto stesso di essere agito dalle persone per le persone, per un pubblico, presuppone la costruzione di un dialogo, il trasferimento di un messaggio, la creazione di un dubbio e la possibilità di generare una emozione. Tutto questo non può che portare ad un cambiamento. Lo spettatore entra in un processo assieme agli attori e ne esce “diverso”, perché ha potuto vivere direttamente un’esperienza.  Inoltre lavorare su alcuni temi, ci consente di entrare in contatto, già nella fase di ricerca, con persone che stanno vivendo oppure hanno vissuto eventi che hanno segnato le loro vite e di cui ci rendono partecipi, confidando in noi come artisti, proprio al fine di portare un cambiamento nelle loro vite e in quel degli altri. 
Mi ha molto colpito l’osservazione di un’attivista di Amnesty International che ci diceva che solo attraverso l’arte la gente riesce ad avvicinarsi a temi forti e tragici, come quelli di Ayotzinapa, proprio perché l’arte ha in sé il potere di trasfigurare l’accaduto e in tale trasfigurazione è già presente e visibile la possibilità di un cambiamento. L’arte, e quindi per noi il teatro, è già la speranza stessa che si concretizza in una forma tangibile. 

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